Per gentile concessione dell’editore Giubilei Regnani pubblichiamo un estratto del saggio di Angelo Crespi, raffinato intellettuale conservatore, già direttore della rivista “Il Domenicale”, rivista di pregio nel campo della cultura libera in Italia.
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Oggi chiunque parli di bellezza viene però criticato come reazionario.
Tecnicamente io lo sono: reagisco al brutto che mi circonda e che mi duole in senso fisico. Non posso essere biasimato se reagisco a un sopruso, e quello del brutto rispetto al bello è un vero e proprio sopruso a danno dell’uomo e dell’umano. Nella contemporaneità rischiamo di dimenticare molte tracce della bellezza del passato e rischiamo di perdere la capacità di produrne di nuova e di godere di quella esistente. Perfino la bellezza minuta del paesaggio, perfetta compenetrazione tra natura e arte, che tanto ci conforta è a rischio o di distruzione o di imbalsamazione attraverso il pittoresco che è una cristallizzazione patetica e sentimentale del bello. Nelle terre del Leviatano, annotava Ernst Jünger, regna il cattivo gusto.
C’è però il tema di sembrare dei passatisti, nostalgici appunto.
La bellezza non è mai passata. Nelle metamorfosi perenni del Tempo rinasce in nuove forme che sempre percepiamo d’incanto, se le sappiamo cogliere. Io non ho nostalgia di una particolare bellezza, o della bellezza di un determinato evo, ho invece nostalgia della bellezza futura e desiderio di fare ritorno a casa, perché la bellezza è la nostra casa e dà senso e dignità alla vita.
Dunque una nuova bellezza?
Non una nuova, ma di nuovo bellezza: ogni epoca ha prodotto bellezza con la certezza che il bello fosse meglio del brutto. Gli stili e i linguaggi si modificavano o si ripetevano, ma resisteva l’idea che si potessero creare cose belle e significative e l’arte era appunto la disciplina in cui ci si adoperava per questo. Noi siamo la prima civiltà che preferisce il brutto al bello. Trovo singolare che si venga dileggiati allorché si critichi questo slittamento, etico prima che estetico.
Forse perché la bellezza in passato era intesa come un adeguarsi a regole precise e questa costrizione nella modernità è stata vissuta come un fardello insopportabile.
Può essere. Le regole proposte dai filosofi della Scolastica, l’integritas, la proportio, la claritas – cioè l’integrità dell’opera, la proporzione che deve esserci tra le parti affinché ci sia appunto integrità, e infine la visibilità che dà luce al tutto – sono uno schema troppo meccanico, ma se ci pensiamo bene quando mi approccio a un quadro, foss’anche un quadro astratto o informale, o ad una porzione di paesaggio, il mio sguardo è appagato se può coglierlo per intero in un colpo solo, cioè se le parti formano un tutto, e poi se in esso troviamo qualche proporzione tra le forme o tra i colori. La stessa cosa vale per l’architettura: mi rispecchio in un edificio classico in cui gli elementi stanno sensatamente in armonia tra loro, magari occhieggiando alla sezione aurea; resto disorientato quando invece guardo un edificio moderno del decostruttivismo, magari stortignaccolo, disassato, o piegato senza un apparente motivo.
Quindi valgono ancora le regole della proportio, dell’integritas, della claritas?
La neuroscienza ci dimostra che siamo attratti e appagati dal bello, cioè quando riconosciamo nel mondo una cosa o una persona che risponde a certi criteri inconsci, addirittura biologici. Io però preferisco parlare di “perfezione”, intendendo il termine perfetto nel suo senso etimologico, da perficio, di “portato a termine”. Quando l’opera d’arte è perfetta, cioè è portata a termine nel modo che doveva essere portata a termine, allora risplende la bellezza, perché nulla si può aggiungere o togliere senza che se ne accresca inutilmente o peggio se ne diminuisca l’insieme. Non è dunque la bellezza dell’oggetto rappresentato a fare bella l’opera, ma il modo in cui è rappresentato, cioè la forma. In questo senso l’arte visiva, attraverso la compostezza della forma e il suo risplendere, non solo in senso apollineo ma anche dionisiaco, può perfino rappresentare il brutto o il mostruoso emendandoli. E anzi credo che sia uno dei fini dell’arte, proteggerci dal brutto e farci meglio abitare il mondo.
Gli stili però cambiano e sembra cambiare anche la bellezza.
Gli stili cambiano, e in parte ogni epoca si adegua a una propria idea del bello, fermo restando che il bello è oggettivo, mentre a essere soggettivo è il nostro giudizio estetico.
Ne è sicuro?
A suo parere, le cose sono belle perché ci piacciono, o ci piacciono perché sono belle? Io risponderei che piacciono perché sono belle. Ma convengo con lei che la soggettività sembra irrimediabile, come aveva intuito già Saffo duemila cinquecento anni fa, scrivendo che la cosa più bella è ciò che si ama. Ma a pensarci bene noi amiamo una cosa appunto perché è bella, cioè per il decoro e la dignità che in essa rifulge.
Purtroppo nel contemporaneo tutto è cambiato. L’arte contemporanea esprime il brutto non per emendarlo ma per esaltarlo, il brutto che rimanda al brutto.
*Nostalgia della bellezza di Angelo Crespi (pp. 196, euro 14, Giubilei Regnani editore 2021). Il volume si quo acquistare cliccando qui