In un contesto come quello italiano ancora oggi restio a perseguire la pacificazione ideologica e ad archiviare ferite lontane, analizzare la stagione degli anni di piombo è un compito arduo: ne è convinto Valerio Cutonilli, avvocato e scrittore, autore di una significativa ricerca condotta sugli atti dell’archivio storico del tribunale di Roma e raccolta nel libro “Chi sparò ad Acca Larenzia? Il settantotto prima dell’omicidio Moro”, edito nel 2018.
L’autore fornisce un quadro non convenzionale e realistico degli equilibri internazionali e nucleari della “guerra fredda”, invitando il lettore a diffidare dei filoni interpretativi sbilanciati in senso complottistico, che individuano i principali responsabili della paralizzante violenza politica degli anni settanta in improbabili burattinai e trascurano il fatto che lo stato di guerriglia strisciante affondò le proprie radici in specifiche ragioni culturali e politiche interne.
La debolezza intrinseca di una Repubblica “a sovranità limitata” trova conferma nella constatazione in base alla quale – dopo la scelta di campo atlantica – nessuna formula governativa sia mai stata adottata senza il preventivo avallo statunitense. Lungi dal trovarsi nella necessità di utilizzare mezzi indiretti o occulti per imporre le proprie scelte politico-militari ad un alleato minore, il governo di Washington non pensò ad una svolta autoritaria in Italia nel 1978, preoccupandosi piuttosto della conservazione della Democrazia cristiana quale partito cardine del sistema politico e non ponendo veti al processo d’inserimento dei comunisti nella maggioranza.
Se da un lato, quindi, la “strategia dell’attenzione” di Moro si dimostrò meno decisiva e molto più prudente di quanto venga spesso descritta, dall’altro l’assoluta peculiarità della situazione italiana è riscontrabile nell’esistenza di un “contro-potere” sovietico tacitamente riconosciuto e rappresentato dal partito comunista più forte dell’occidente e nelle contraddizioni di una classe dirigente scudo crociata (in parte delegittimata da casi di corruzione) propensa – forse anche avvalendosi di attività provocatorie devolute ad ambienti militari di fiducia – a sfruttare i dividendi della denuncia degli “opposti estremismi”. Essa fu attratta dalla scelta consociativa del “compromesso storico” per necessità opposte a quelle dei comunisti, convinti di non poter ambire a governare da soli in un paese affiliato alla Nato.
La strada della collaborazione e dell’attesa scelta da Berlinguer non solo deluse Mosca, strenua nemica dei processi di unificazione economica e politica dell’Europa occidentale, ma si tradusse in un sostegno quasi privo di corrispettivi e in costi che si sarebbero dimostrati elevati: la fine della distensione internazionale causata dalla crisi degli euromissili e la polemica contro l’ingresso dell’Italia nello SME sancirono l’irrealizzabilità dell’incontro con il partito d’ispirazione cattolica e la conseguente uscita dei comunisti dall’area di governo.
Emblematico di uno stato di necessità che aveva costretto il paese ad intessere un fitto quanto pericoloso groviglio di relazioni internazionali sotterranee fu il “lodo Moro”, l’accordo segreto stipulato tra autorità italiane e gruppi combattentistici dell’OLP finalizzato ad assicurare la libera circolazione di armi nel territorio nazionale in cambio dell’impegno palestinese a non compiere attentati, ma anche strumento per usufruire di un canale di mediazione nei rapporti con i paesi arabi fornitori di risorse energetiche. Se da una parte non è da escludere che gli apparati di sicurezza israeliani abbiano beneficiato già da prima di intese che consentissero loro la piena agibilità in Italia e che fossero riusciti ad infiltrarsi nei gruppi di estrema sinistra, dall’altro è assodato che il patto concernente la fornitura di armi ed esplosivi a favore dei terroristi italiani raggiunto da Mario Moretti e Abu Ayad (capo di un’ala marxista e minoritaria dell’OLP) sia solo un tassello di un filone di ricerca in gran parte inesplorato: quello dei rapporti intercorrenti tra le Brigate Rosse, la RAF e le formazioni palestinesi.
Cutonilli racconta un’altra storia, che ha il prologo curioso di una profezia rovesciata: uno scoop dell’Espresso riguardante una “soffiata” ricevuta dal Ministro della Difesa Ruffini. I “fascisti” si apprestano, con l’immancabile regia internazionale, ad alzare il livello dello scontro per provocare una reazione dell’estrema sinistra; un esponente di punta del partito comunista sarà assassinato, mentre la città di Roma finirà in balia del putiferio generale.
Acca Larenzia: una strage senza colpevoli
“Uccidere un fascista non è reato” non è solo uno degli slogan più diffusi tra le fila dell’antifascismo militante: è accaduto prima (rogo di Primavalle, casi Mantakas e Zicchieri) e si verificherà dopo la strage di Acca Larenzia del 7 gennaio 1978 che omicidi brutali rimangano di fatto impuniti.
Freddati dai colpi di pistola di una mano professionista, Ciavatta e Bigonzetti – militanti poco più che diciottenni del Fronte della Gioventù – vengono colti di sorpresa nei pressi della loro sezione missina, ubicata nella periferia del Tuscolano; gli assalitori sparano raffiche di proiettili e sfogano la propria rabbia bestemmiando nel momento in cui si accorgono che altri camerati sono riusciti a mettersi in salvo nel locale. Poco più tardi, durante un corteo improvvisato dai “fascisti” e carico di tensione con giornalisti e forze dell’ordine, un giovane amico delle vittime viene colpito di striscio da un lacrimogeno e poi alla fronte da un colpo di pistola. Recchioni muore da imputato di reato, come risulta nella sentenza conclusiva dell’inchiesta sul suo omicidio: mentre è agonizzante in ospedale, ignoti infilano alcuni proiettili nella sua giacca.
L’accaduto produce il riflesso scontato di una rabbia cieca che si espande in tutto il paese, accelerando il processo di consolidamento dei NAR in stabile struttura terroristica: uno spartiacque nella scelta definitiva dei futuri protagonisti dello “spontaneismo armato”, che non conoscono alcuna strategia rivoluzionaria. Si affidano alla vendetta e non perdonano alla dirigenza missina – accusata di mandare i propri militanti allo sbaraglio – l’imbarazzo percepito nella contrapposizione con l’Arma dei carabinieri.
Squalificata dai vertici del brigatismo come azione priva di rilevanza strategica e rivolta contro un obiettivo marginale rispetto a quello fondamentale dell’attacco al cuore dello Stato, la strage di Acca Larenzia nasce verosimilmente “dal basso” di un’area composita, che si muove in modo più o meno disordinato dall’ormai disciolto Potere operaio verso l’Autonomia e la colonna romana delle Brigate Rosse. Una struttura armata e clandestina, capace di mimetizzarsi dietro molteplici sigle utilizzando acronimi incrociati per confondere le acque – l’attentato del Tuscolano è firmato NACT (Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale) – e di affiancarsi a comitati e collettivi, ricevendo assistenza, addestramento e armi in prestito dai terroristi, convinti della necessità di un’organizzazione rivoluzionaria in grado di compiere simultaneamente azioni di “avanguardia” e di “massa”.
L’autore accredita la pista, non molto considerata in sede giudiziaria, degli ex membri di Potere operaio riuniti nei Comitati comunisti romani e attivi nella “cerniera” che abbraccia l’area di Roma sud dall’Alberone fino ai Castelli. Le varie componenti di un puzzle ricostruito attraverso le testimonianze di molti pentiti – dalle quali emergono ombre inquietanti sulle protezioni di cui beneficiarono i terroristi in cambio della disponibilità a collaborare, al punto che Valerio Morucci ha assunto nel tempo il ruolo stupefacente di consulente istituzionale in materia – restituiscono risultati clamorosi, tenuti a lungo accuratamente nascosti ai media e all’opinione pubblica.
Le perizie tecniche effettuate dopo gli omicidi di Tarantelli, Conti e Ruffilli (compiuti tra il 1985 e il 1988 dalle Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente) hanno certificato che venne utilizzata la medesima pistola-mitragliatrice di fabbricazione cecoslovacca, classificata da una circolare del Ministero dell’Interno del 1972 come arma da guerra: la Skorpion.
Pur non uccidendo Bigonzetti e Ciavatta, è la stessa pistola che semina il terrore ad Acca Larenzia e rispunta in seguito, durante alcune esercitazioni avvenute nelle grotte della Caffarella ad opera dei brigatisti dei Nuclei Clandestini di Resistenza. Il famoso cantante Jimmy Fontana, suo primo proprietario, sostiene di averla venduta ad Antonio Cetroli, commissario di Pubblica Sicurezza del Tuscolano: quest’ultimo nega, ammettendo successivamente di aver intavolato una trattativa dall’esito controverso presso l’armeria Bonvicini di Via Oslavia, frequentata – tra gli altri – da Morucci. La svolta nelle indagini non arriva a prescindere dall’incredibile controversia, perché rimane ignota la “catena” dei successivi possessori dell’arma.
E’ avvolto nel mistero l’omicidio di Recchioni (si parla della presenza di un provocatore – smentito da Francesca Mambro che era accanto al militante del Fronte -, fu indagato il capitano dei Carabinieri Eduardo Sivori poi scagionato), alimentato dal Ministro degli Interni Cossiga, che difese in Parlamento l’operato delle forze dell’ordine avallando la tesi del colpo partito accidentalmente a causa di un inciampo, l’affermazione non trovò riscontro perché la perizia balistica accertò come l’unico proiettile utilizzato non fosse in dotazione all’Arma e il diretto interessato, di conseguenza, non divenne mai imputato.
Sono emersi seri interrogativi sulla vicenda riconducibili a leggerezze ed errori giudiziari: a titolo non esaustivo, un testimone mai ascoltato dai magistrati dichiarò di aver assistito dalla finestra della propria abitazione alla ritirata degli aggressori, uno dei quali zoppicava dalla gamba sinistra; accadde lo stesso ad un vecchio militante missino, che descrisse un uomo in trench e dagli occhiali scuri nell’atto di sparare alto in direzione dei carabinieri – prima di dileguarsi – senza dare l’impressione di volerli centrare bensì per provocarne la reazione in un frangente di scarsa visibilità determinata dall’utilizzo dei lacrimogeni, pochi istanti dopo il ferimento a morte di Recchioni.
Le indagini riaperte nel 2012 non hanno finora registrato alcun significativo passo in avanti, a conferma dell’amara riflessione dell’autore circa l’effettiva aderenza tra ricostruzione giudiziaria e realtà: la prima “talvolta somiglia molto” alla seconda, “in altri casi invece si diverte a sbeffeggiarla”. La strage di Acca Larenzia è una brutta storia di periferia, dimenticata in fretta dalle Istituzioni e dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, rimossa oggi nella mancanza generale di un interesse reale verso la pacificazione e – ancor meno – la storicizzazione di quegli anni.
Perchè farla tanto lunga, furono normali comunisti…