Non ho conosciuto Giovanni Volpe. Per ovvi motivi anagrafici non l’ho mai incontrato personalmente. Me ne hanno parlato alcuni colleghi, alcuni amici, ma non ho trovato nulla di ‘organico’ sulla sua figura. Eppure grazie soprattutto all’Ingegnere (così in molti lo chiamavano) si deve il risveglio di una cultura anticonformista negli Anni ’60 con gli sviluppi nei successivi due decenni. Si può tranquillamente affermare che l’alternativa al fronte del primo centrosinistra ed alla egemonia nei gangli vitali della cultura e dell’istruzione, quasi una dittatura, della sinistra radicale, partì con le uscite editoriali curate da Volpe e dai primi eventi conseguenti. Eppure, se togliamo la non secondaria tradizione famigliare, parliamo di un affermato professionista, visto che come ingegnere, dopo essere stato impegnato in grandi opere idroelettriche e di bonifica, applicò a inizi anni ’70 moderne soluzioni tecniche per l’archeologia, con una grande e favorevole eco anche extra confini nazionali, nel riportare alla luce l’antica Sibari. E poi l’agricoltura, che ha visto Giovanni Volpe impegnato nelle proprie terre sulle colline sopra Cesena. Un legame stretto tra Terra, Identità, Cultura. Il tutto in un percorso dapprima umano e poi professionale. Quali siano state le molle che portarono un ingegnere costruttore a diventare a 55 anni imprenditore-editore, lo spiegò a Lo Specchio dieci anni dopo quella svolta che coincise con l’avvento delle prime formule di centrosinistra al Governo (non solo nazionale): “(…)La reazione rabbiosa di un uomo, a destra fin dall’età lieve, di fronte al perdurante silenzio della cultura di destra (ed i motivi non sono tutti estranei ad essa),e la speranza che una iniziativa editoriale di destra, pur a carattere artigianale e assunta da un uomo che essendo di destra non ha spiccato lo spirito commerciale, potesse non certo colmare la grave lacuna, ma incominciare l’opera e l’incoraggiamento magari più consistenti analoghe iniziative” (NOTA: Lo Specchio, ‘Vogliamo costruire e non distruggere’, intervista a Giovanni Volpe, supplemento del 20-02-1972). In poco più di vent’anni di attività la casa editrice omonima sfornerà circa trecento titoli ed alcune riviste, insieme ad una costanza di incontri, conferenze, dibattiti. La sua è un’attività di operatore culturale interventista, senza grandi fronzoli, con poca cura delle copertine o meglio con una sobrietà elegante ma allo stesso tempo povera, ma con una libertà di produzione che deve essere di insegnamento a chi vuole fare editoria. Volpe capì subito quali caratteristiche avrebbe dovuto avere la cosiddetta cultura ‘di destra’: “(…) Deve certamente rispettare l’individualità di chi si schiera con essa, perché non vuole essere l’apparato culturale di determinate forze politiche che già hanno il loro vangelo, ma il punto di incontro e di collaborazione, sulla base di alcuni valori fermi da tutti accettati, di uomini di varia origine, di vario orientamento e temperamento, solidali nella ricerca di un sistema che, prima o poi, dovrà sostituire quello attuale ed armonizzare, fin dove possibile, ordine (conservazione) e giustizia sociale (rivoluzione), anziché realizzare questo binomio <<disordine più ingiustizia>> che caratterizza l’Italia. Compito quindi creativo più che conservatore, volontà di trarre da tutti i passati quel che essi possono dare di contributo al tracciamento delle linee architettoniche essenziali del nuovo edificio”. (NOTA, IBIDEM) Quanta attualità in queste parole di quasi cinquant’anni fa: la necessità di una destra italiana come unicum, che quindi non può essere solo conservatrice, destino limitante per una concezione del mondo che si porta dietro millenni di storie, esperienze, idee e valori, ma anche esempi e fatti veri. Inoltre la constatazione dell’esistenza di un’area diffusa che è coro polifonico, nei linguaggi e nelle sfaccettature. Il contrario del monologo della sinistra, stanco ma allo stesso tempo di autorigenerarsi dopo i costanti fallimenti ideali e politici. Se cambiano le parole d’ordine (non tutte), rimangono intatti nemici e mentalità. Giovanni Volpe è e sarà esempio di coraggio, di volontà nell’essere e fare la storia, non di subirne le contingenti manifestazioni. Giovanni Volpe muore durante uno dei tanti Incontri romani, ai quali presenziava ma non sempre parlava. Quel 15 aprile sentì che dovesse dire la sua, andò al tavolo dei relatori, si sentì male, morì sul suo personale campo di battaglia. Una scelta che fece Berto Ricci, ribaltandola: disse addio (o arrivederci) alla carta stampata, scegliendo prima l’Etiopia e poi, partito volontario, cadde sul fronte libico, nel febbraio di ottant’anni fa. Sospese le pubblicazione dell’Universale in occasione della Guerra d’Etiopia. Continuò con il fucile quello che aveva cominciato con la penna e la macchina da scrivere.
*direttore di Storia Rivista (clicca qui per acquistare la pubblicazione)
Io invece, meno giovane, o meglio, meno eufemisticamente, più vecchio di Amorese, ho conosciuto Giovanni Volpe e ho collaborato, sia pur marginalmente, con la sua casa editrice. Sulla sua rivista “Intervento” ho pubblicato i miei primi articoli pagati (a quell’epoca anche le riviste di cultura avevano il buon gusto di pagare, sia pure poco). Era un uomo psicologicamente e ideologicamente molto lontano da Berto Ricci: non era un fascista di sinistra, ma un conservatore. Si dichiarava “monarchico e non antifascista”, però aveva una grande larghezza di vedute che gli faceva pubblicare anche libri lontani dai suoi orizzonti politici.
Era, anagraficamente e anche fisiognomicamente, un figlio del fascismo regime. Suo padre era stato considerato lo storico ufficiale del fascismo e per questo, nonostante non avesse aderito alla Rsi, era stato epurato dopo la guerra. Quando ci lamentavamo dei tagli ai nostri articoli per motivi di spazio, ci ricordava che “il Professore” (lo chiamava sempre così) correggeva sul bancone della tipografia del “Tempo” di Angiolillo le bozze dei suoi articoli e se il piombo era troppo faceva lui stesso i tagli ai suoi pezzi di terza pagina. Aveva sposato una Serpieri, figlia del famoso sottosegretario alla Bonifica integrale e rettore dell’Ateneo fiorentino. Pubblicava moltissimo, ma non riusciva a vendere i suoi libri, un po’ per il boicottaggio della distribuzione e dei grandi quotidiani che avrebbero dovuto recensirlo, un po’ perché non gliene importava più di tanto.Il passivo della casa editrice e della Fondazione che intitolò al padre credo gli consentissero di compensare fiscalmente gli attivi delle sue attività imprenditoriali. Come alternativa al macero per i suoi fondi di magazzino escogitò un escamotage intelligente: li offrì scontati del 50 per cento ai vari circoli del Fuan. Fu così che molti di noi ne facemmo conoscenza.
Nei suoi confronti ho un rimorso. Insieme a un gruppo di giovani intellettuali di quella che sarebbe stata definita la Nuova Destra, fondammo una rivista (Elementi) e una casa editrice (Il Labirinto) e lui si sentì in certo qual modo tradito. Credo che avesse la sua parte di ragione: come minimo mancammo di diplomazia, e anche di spirito pratico. A complicare le cose ci si mise il fatto che la Nouvelle Droite francese cui ci ispiravamo professava un rozzo neopaganesimo, che per altro la maggior parte di noi non codivideva, cosa che aiutò alcuni intellettuali desiderosi di entrare nelle sue grazie per metterlo ulteriormente in rotta con noi. Fu un errore: Volpe sarà anche stato un “ombroso editore della domenica”, come lo definì brillantemente un mio amico che a volte scrive di cinema anche su questo sito, però era un mecenate e fece di tasca sua per la cultura di destra quello che forse nessuno ha fatto nell’Italia del dopoguerra. Intorno alla sua casa editrice e soprattutto alla Fondazione era riuscito a coagulare personalità del mondo accademico di prim’ordine, che ci sarebbero potute servire per spezzare l’isolamento cui ci aveva condannato la militanza a destra.
Volpe morì il 15 aprile 1984, lo stesso mese e giorno di Gentile, mentre interveniva a un incontro della Fondazione. In piedi come era vissuto. La Fondazione, grazie anche all’impegno della vedova e degli eredi, proseguì fino al maggio del 1989, con un convegno sulla (o meglio contro la) Rivoluzione Francese, cui partecipò anche Augusto Del Noce. Fu l’ultima volta che incontrai quel grande maestro della cultura cattolica che rappresentò il pendant nell’ambito filosofico di quello che De Felice ha rappresentato nella storiografia.
p.s. di Volpe scrissi un ricordo venato di affetto e di ironia (in un toscano i due sentimenti possono coabitare) sul numero del settembre 2006 di “Letteratura e Tradizione”. Oggi è irreperibili: gli interessati possono chiedermene l’originale.