L’Italia è un Paese che riesce sempre a stupire, non solo l’oggi, ma pure il suo ieri, la sua storia complicata. Cento anni fa, il primo marzo 1921, moriva in esilio a Cap-d’Antibes, sulla Costa Azzurra, il deposto sovrano Nicola I del Montenegro, suocero, tra l’altro, del Re d’Italia Vittorio Emanuele III e del Re Pietro I di Serbia.
Perchè vale la pena ricordare oggi la morte di quel sovrano, detronizzato, di un piccolissimo e povero Stato balcanico, per alcuni più brigante che principe (basti osservarne le foto ufficiali, un omaccione corpulento, pittoresco nel costume tradizionale, con tanto di revolver alla cintola), come sosteneva il Kaiser Guglielmo II ‘un ladro di bestiame’? Una famiglia patriarcale estesa ed unita, ma un po’ da operetta, tant’è che il figlio e principe ereditario Danilo (poi Danilo II Petrović-Njegoš, Re del Montenegro nel marzo 1921, per pochi giorni, prima di abdicare), per la sua vita spensierata e godereccia condotta durante la Belle Époque, soprattutto a Parigi, indusse Franz Lehár a farne il protagonista della sua famosa operetta La vedova allegra (1905)…
Un passo indietro. Nell’ultima decade dell’800 era Presidente del Consiglio Francesco Crispi (1818-1901) di Ribera, Agrigento. Figura di spicco del nostro Risorgimento, uno degli organizzatori della Rivoluzione Siciliana del 1848, ideatore e partecipante della spedizione dei Mille. Già acceso mazziniano e garibaldino, divenne fervente monarchico dopo l’Unità: Barone, Collare dell’Annunziata, Gran Maestro della Massoneria, sempre anticlericale ed ostile al Papa, quattro volte Presidente del Consiglio: dal 1887 al 1891 e dal 1893 al 1896, oltre ad essere titolare di Ministeri-chiave. Fu il primo meridionale a diventare Capo del Governo di Re Umberto I. I suoi Gabinetti si distinsero per importanti riforme sociali, ma pure per la dura repressione di anarchici e socialisti. I moti dei Fasci Siciliani furono soffocati con la legge marziale. In politica estera coltivò l’amicizia con la Germania, che apparteneva con l’Italia (1882) e l’Austria-Ungheria alla Triplice Alleanza. Avversò la Francia, contro la quale rinforzò l’Esercito e la Marina. Antonio Gramsci accuserà Crispi di autoritarismo, bellicismo, imperialismo, di essere il vero precursore del Fascismo. Crispi sostenne, è vero, una avventurosa politica coloniale nel Corno d’Africa che, dopo alcuni successi (Eritrea), portò alla disfatta di Adua del 1896, una vera sciagura nazionale che significò pure la fine della sua carriera politica. Il suo principale avversario politico, Giovanni Giolitti, lo sostituì alla guida del Paese. Tuttavia, tra luci ed ombre (pure la sua bigamia), egli fu un vero, ostinato statista che univa passione patriottica e prospettive politiche, che aveva il senso dell’amministrazione. Insomma, il suo apporto all’edificazione dello Stato italiano fu notevole. ‘Costruire lo Stato per dare forma alla Nazione’ è, non casualmente, il titolo di una recente pubblicazione, del 2009, del Ministero per i Beni culturali, a cura di Aldo G. Ricci e Luisa Montevecchi.
La famiglia di Francesco Crispi (in origine Kryeshpi, Capocasa) era di Palazzo Adriano, un paese del palermitano abitato dalla minoranza arbëreshe, fondato alla fine del XV secolo da albanesi in fuga dagli Ottomani: il nonno paterno di Crispi era un sacerdote del clero bizantino; il suo figlio maggiore si stabilì a Ribera, sposando una vedova benestante e Francesco, secondo di nove figli, fu battezzato secondo il rito bizantino. «Albanese di sangue e di cuore»: Crispi andava fiero della sua origine ed aveva preso una decisa posizione nella causa dell’indipendenza albanese dall’Impero Ottomano, che si realizzerà solo dopo la sua morte.
La Regina Margherita era in quegli anni ossessionata dalla necessità di dar moglie al suo unico figlio ed erede al trono, Vittorio Emanuele, nato a Napoli nel 1869, che le aveva detto e ripetuto che si sarebbe sposato (forse osservando il pessimo matrimonio dei genitori)… solo per amore! Figlio unico di cugini primi, il principe crebbe nel tipico ambiente familiare sabaudo: rigido e militare. Ebbe un’educazione accurata, comprendente la frequenza della Scuola Militare Nunziatella di Napoli, che integrò con lunghi viaggi all’estero. Intelligente (parlava 4 lingue, anche se preferiva usare, potendo, il dialetto piemontese), tra le sue passioni spiccavano la numismatica, la storia, la geografia: la sua conoscenza numismatica fu mondialmente riconosciuta (egli fu autore del fondamentale trattato sulla monetazione italiana, il Corpus Nummorum Italicorum). Crebbe, forse anche per lo scarso affetto materno, freddo, formalista seppur di gusti spartani, testardo, schivo, assai poco socievole, diffidente, pignolo, agnostico, riflessivo sino al cinismo (impressiona una sua foto mentre fa colazione sul prato avendo di fronte una gran pila di soldati morti, durante la Grande Guerra). Vittorio soffriva acutamente per le sue carenze fisiche, per la scarsa altezza, appena 1.53, gambe molto corte (che obbligarono a confezionargli una sciabola da parata corta, da lì il soprannome ‘sciaboletta’ che l’accompagnò per tutta la vita, ereditate dalla madre, più che causate dall’endogamia) e non aveva alcuna fretta di succedere al padre, forse sentendosi inadeguato.
In quel tempo, nella stagione del positivismo trionfante, si stava diffondendo nelle Case Regnanti il terrore delle malattie genetiche, causate da errori nel DNA, disturbi che hanno origine nell’alterazione di un gene. Oggi conosciamo meglio ciò che al momento era essenzialmente una constatazione empirica, osservando, ad esempio, l’emofilia diffusa tra i nipoti della Regina Vittoria. E, cioè, che talune malattie si trasmettono come caratteri recessivi, che si manifestano solamente negli individui i cui genitori siano entrambi portatori del carattere patologico. Nei matrimoni tra non consanguinei la probabilità d’incontro di due geni alterati è assai bassa; tale probabilità aumenta, invece, quando sia frequente la consanguineità dei coniugi. Come succedeva da secoli in tutte le dinastie europee.
Nell’ossessione della Regina per una candidata appetibile ed adatta al ruolo, alla ricordata caparbietà del figlio, si sommavano ostacoli (il risentimento delle dinastie deposte con l’Unità), opportunità politiche (ad esempio, erano scartate le Orléans per non dispiacere alle Autorità repubblicane francesi, semmai lasciate al ramo cadetto degli Aosta), religiosi (una futura regina d’Italia non poteva non essere cattolica) ed un’attenzione assai decisa per il ‘sangue entrante’, che avrebbe dovuto irrobustire un ceppo savoiardo indebolito. Falliti alcuni approcci, la Regina Margherita chiese consiglio a Crispi, che, naturalmente, trattò la questione da politico, ma anche da fiero discendente di albanesi. Crispi era convinto della necessità di una attiva “politica balcanica” dell’Italia nel clima del tramonto ottomano, mentre Russia ed Austria-Ungheria non sottacevano le loro ambizioni nella regione. Che era già allora una polveriera ed un rompicapo, un impasto inestricabile di lingue, religioni, minoranze, appartenenze a clan talora spietati, eredità storiche conflittuali o per nulla condivise, tenaci rancori secolari, terreno fertile per ogni sorta di dietrologia: circostanze che non intimorivano il pugnace siciliano, che lì vedeva un’opportunità d’ influenza ed espansione per la nostra giovane nazione, bisognosa di cimenti, non di vita comoda!
La famiglia regnante nel piccolo Montenegro non era di rango reale, ma ambiziosa ed unita da freschi legami familiari con la Famiglia imperiale Romanov e con altre eminenti, antiche dinastie. Così, dopo un primo incontro a Venezia nel 1895, la figlia del principe Nicola Petrović-Njegoš, Elena, conobbe il futuro re d’Italia. Elena era una tipica bellezza slava, alta 1.80, con occhi seducenti da cerbiatta, che affascinò Vittorio. Quando, ben tredici mesi dopo, i giovani si reincontrarono a Mosca per l’incoronazione del nuovo zar Nicola II, finalmente il principe italiano si decise, nella gioia dei genitori, che con Crispi avevano intessuto la trama, per nulla delusi che l’unico figlio convolasse a nozze con la figlia di un ‘principe pastore’, certo non ricco, o che il loro sangue, il più antico d’Europa, si diceva, si mescolasse con quello di un lignaggio inferiore.
Nicola apparteneva alla dinastia dei Petrović-Njegoš; suo padre era il granduca Mirko Petrović-Njegoš, soldato, poeta, diplomatico. Scriverà un poema epico, Junački spomenik, pubblicato a Cettigne nel 1864 per glorificare il Montenegro, raccontando le grandi vittorie del suo popolo contro i Turchi. Mirko era fratello di Danilo I del Montenegro, formalmente parte dell’Impero Ottomano, ma autonomo; sua madre era Anastasia Martinović. Dal 1696 il titolo di vladika, o principe-vescovo ortodosso del Montenegro, divenne ereditario nella famiglia Petrović, con il divieto di matrimonio, attraverso la successione zio-nipote. Con Danilo le tradizioni cambiarono: rinunciò all’ufficio episcopale, dichiarando l’eredità in linea diretta maschile. Dopo ch’egli ritornò dalla Russia, nel 1852, i suoi sostenitori, influenzati dal parere dello zar Nicola I, che in lui vedeva un valido alleato nell’area balcanica, venne infatti nominato principe (Knjaz). Dopo secoli di governo teocratico, Danilo cercò di modernizzare le istituzioni del principato. Organizzò come prima cosa un censimento, nel 1855, che evidenziò una popolazione di circa 80.000 persone (saranno 621.873 nel 2020). Danilo fu considerato un tiranno ed un governatore brutale, dal momento che tentò di accentrare il potere nelle proprie mani con ogni mezzo, contribuendo ad ampliare le funzioni dello Stato. Il principe organizzò anche un nuovo sistema di tassazione che venne accettato da tutte le tribù montenegrine ad eccezione dei Kuci, contro i quali Danilo inviò il proprio fratello, il granduca Mirko, nel 1856, con la precisa missione di non lasciare vivo alcuno degli eredi delle famiglie appartenenti al clan. Dei 247 morti, solo 17 erano soldati, mentre tutti gli altri pare fossero bambini! Il principe venne assassinato nell’agosto 1860, mentre si trovava sulla propria nave, nel porto di Cattaro. L’assassino, Todor Kadić, apparteneva alla tribù dei Bjelopavlici. Danilo venne ucciso per vendetta, per aver violentato la sorella di Todor. Dopo la morte di Danilo I, senza figli maschi, ereditò la carica di Principe il nipote Nicola, figlio di Mirko.
Nicola I, nato a Njeguš il 7 ottobre 1841, secondo il calendario gregoriano (nel Montenegro vigeva ancora quello giuliano) crebbe soprattutto a Trieste, nella casa della zia Darinka, ardente francofila, poi studiò al Liceo Louis-le-Grand a Parigi. Nel novembre 1860 Nicola sposò Milena, figlia del voivoda Petar Vukotić (proprietario terriero) e continuò le riforme amministrative e militari; dal 1862 al 1878 ci furono scontri con truppe della Sublime Porta. Nel 1867 egli incontrò Napoleone III a Parigi e nel 1868 lo zar Alessandro II; visitò le Corti di Berlino e Vienna. Nicola stava collocando con abilità il piccolo e remoto Montenegro nello scacchiere europeo, esibendo una personalità decisa, intelligenza ed acume politico. L’amicizia con la famiglia imperiale russa garantì considerevoli sovvenzioni al suo povero Paese: armi, munizioni, denaro furono inviati alla capitale Cettigne. Sovrano guerriero, nel 1876 dichiarò guerra alla Turchia. Nonostante alcune sconfitte, le grandi Potenze gli assegnarono nuove città, come ricompensa per l’impegno militare. Il Montenegro ottenne un’estensione del territorio e l’acquisizione di uno sbocco marittimo.
L’indipendenza del Montenegro fu poi riconosciuta nel 1878 al Congresso di Berlino. Nel 1900 Nicola acquisì il trattamento di Altezza Reale e, il 28 agosto 1910, durante il suo giubileo, fu incoronato Re del Montenegro. Nel 1905 aveva concesso al Paese la sua prima costituzione, introducendo la libertà di stampa, un codice di diritto penale e la valuta montenegrina, il perpero. Nicola fu membro del movimiento panslavista “Gioventù Serba Unita”, durante la sua breve esistenza, e poi della “Associazione per la Libertà e l’Unificazione della Serbia”. Nel 1910 egli fu pure nominato feldmaresciallo dell’Esercito russo (onore solo concesso al Duca di Wellington). In quanto padre della nostra regina, Nicola fu benvoluto dagli italiani e soprattutto dai pugliesi, così vicini al suo regno. A Bari, dove a volte si recava per acquisti, era affettuosamente chiamato zi’ Nicole: la città gli ha dedicato un busto in corso Vittorio.
Nicola I era affiliato alla massoneria (come Crispi), membro della loggia “Luce a Est”, istituita a Cettigne nel 1877. E come, pare, i suoi generi re. Nicola I è oggi considerato come un despota benevolo, capo militare e poeta (autore pure dell’inno nazionale, conosciuto come ‘La Marsigliese del Montenegro’). Ebbe dalla moglie Milena dodici figli. Cinque delle sue figlie, con un’ottima salute, sposarono principi o sovrani europei e ciò gli valse l’appellativo di “suocero d’Europa”, appellativo che fu attribuito anche a Cristiano IX di Danimarca:
Zorka (1864-1890), che sposò Petar Karadordevic (che divenne Re Pietro I di Serbia nel 1903 e fu padre del Re Alessandro I di Jugoslavia); Milica (1866–1951), che sposò il granduca Pietro di Russia; Anastasia (1868-1935), che sposò dapprima il duca Giorgio di Leuchtenberg e poi il granduca Nicola il Giovane di Russia; Maria (1869-1885); Il principe ereditario Danilo (1871-1939), che sposò la duchessa Jutta di Meclemburgo-Strelitz e succedette brevemente al padre, per poi abdicare in favore del nipote Michele; Elena (1873-1952), che divenne Regina d’Italia; Anna (1874-1971), che sposò il principe Francesco Giuseppe di Battenberg, figlio di Alessandro d’Assia, e non ebbe figli; Sofia (1876-1876); Mirko (1879-1918), che sposò Natalija Konstantinović, padre di Michele I, ultimo re titolare. Nel 1911si affiliò alla società segreta Mano Nera “Unità o Morte”, che perseguiva l’unificazione di tutti i serbi dei Balcani, specialmente quelli sotto sovranità asburgica, morto di tubercolosi a Vienna; Ksenija (1881-1960), che fu promessa a Re Alessandro I Obrenović, ma lei si rifiutò di sposarlo per i suoi modi rozzi, dopo averlo conosciuto; Vjera (1887-1927), che rimase nubile come la sorella Ksenija; Pietro (1889-1932).
Il padrino di quest’ultimo fu Alessandro III di Russia, la madrina la duchessa di Edimburgo, nuora della Regina Vittoria. Essendo il figlio più giovane, e quindi improbabile erede al trono, fu candidato al trono d’Albania, dopo ch’essa ottenne l’indipendenza dall’Impero ottomano, nel 1912. Tuttavia, alla conclusione della I Guerra Balcanica, il trattato di Londra affidò alle sei Grandi Potenze europee (Austria-Ungheria, Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna e Russia) il compito di definire la forma del nuovo Stato ed i confini. Il 29 luglio 1913 la conferenza degli ambasciatori decise per l’Albania un futuro come Principato ereditario, assegnato al principe tedesco Guglielmo di Wied. Sposò poi una divorziata francese, Violette Brunet, ma non ebbe discendenti.
Il matrimonio tra Elena e l’erede al trono d’Italia, previa conversione al cattolicesimo della principessa, a Bari, venne austeramente celebrato al Quirinale con rito civile, seguito da quello cattolico nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, a Roma, il 24 ottobre 1896.
Vittorio Emanuele era riservato, non amava le cerimonie e le feste, gli piaceva stare in famiglia, era assai parco: si dice che normalmente i suoi pasti fossero a base di gallina bollita e patate. Non era di natura accattivante, simpatico e non faceva nulla per sembrarlo, con nessuno, tranne che con l’amata moglie alla quale fu sempre fedele e devoto. Malevola era specialmente la moglie del cugino Emanuele Filiberto duca d’Aosta, Elena d’Orléans, pronipote di Luigi Filippo, Re dei Francesi, e discendente delle grandi dinastie europee, che coniò il soprannome “Curtatone e Montanara” appioppato alla coppia reale prendendo in prestito l’omonimo fatto d’armi risorgimentale, del maggio 1848; e che chiamava Elena “ma cousine la bergère”. Al momento del regicidio di Monza (29.7.1900) Vittorio Emanuele accettò la corona, anche se controvoglia, come un dovere e null’altro. Ma poi rimase visceralmente attaccato ad essa, affossando la dinastia.
Le malignità si diradarono per la condotta ineccepibile della giovane, seria regina e la nascita tanto attesa del figlio maschio Umberto (1904), dopo Jolanda e Mafalda, quando Elena d’Orléans già assaporava il trono per uno dei suoi figli, Amedeo o Aimone… La regina condivideva col marito, con il quale sempre parlò in francese, lingua di conversazione alla tavola paterna, l’attaccamento alla famiglia ed uno stile di vita borghese, per nulla appariscente, molto low profil. Un minimalismo scontroso che alla fine non fece bene alla Monarchia.
Scrisse dopo la fine del conflitto Giuseppe Salvago Raggi in L’Ambasciatore del Re (Le Lettere, 2011) che Vittorio Emanuele III aveva commesso alcuni gravi errori, che la storia gli avrebbe attribuito. Il primo era stato di apparire troppo defilato, togliendo la sacralità dell’istituzione. ‘Per amore di vita semplice, parsimonia più che avarizia, debolezza verso la regina, ha tolto ogni appariscenza alla regalità e il popolo, alto o basso, si è abituato a non considerare il re, che non vedeva o vedeva passare in un’auto frettolosa, o piccolino, in modesta piccola tenuta di generale in qualche esposizione’. Il secondo era stato quello di aver lasciato che Mussolini si prendese di fatto tutti i meriti anche in questioni che sarebbero state di sua diretta pertinenza. Circa l’8 Settembre, il pensiero dell’Ambasciatore – già Governatore dell’Eritrea ed Incaricato d’affari nell’assediato quartiere delle Legazioni durante i famosi 55 giorni di Pechino – era chiaro: “Il Re e il Governo dovevano partire per assicurare la libertà del sovrano e l’esistenza di un governo col quale gli Alleati trattassero. Ma il principe doveva restare con le truppe (…) Il re ha purtroppo dimenticato che una bandiera (o una corona) che cade nel sangue si rialza, non si rialza quella che cade nel fango! Come ha potuto dimenticare un Savoia? Unica spiegazione: i molti anni e l’influenza nefasta della regina…brava donna, ma non regina. Purtroppo!”-
Umberto in effetti era partito da Roma per Pescara di malavoglia, non gli era sembrata una buona decisione ed ora stava vergognandosene. “So che rischio la pelle, disse al re durante una sosta, ma debbo tornare a Roma”. Vittorio Emanuele III si oppose (e c’è chi racconta che la regina supplicasse Umberto di rimanere dicendogli: “Beppo, tu n’iras pas, on va te tuer”, e il padre, di rincalzo, in piemontese: “Beppo, s’at piu at massu…”, se i tedeschi ti prendono, ti ammazzano…).
Vittorio Emanuele III aveva saputo difendere nel 1917 a Peschiera, all’indomani della rotta di Caporetto, l’onore dell’Italia. Nel 1922 impedì una guerra civile e poi, di malavoglia, accettò Mussolini, la sua modernizzazione autoritaria. Borbottando firmò ogni sua legge: tante firme, anche sui provvedimenti più stupidi ed odiosi, avallando i gravi errori del Fascismo. Per un ventennio lui e tutti i Savoia si crogiolarono al tepore del regime, tra cariche, piume, corone (Etiopia, Albania). Poi la guerra sciagurata. Nel giugno del 1940, anzichè minacciare l’abdicazione per quel bluff temerario, il Re chiese al Duce Nizza, Savoia, il confine al Var. Le terre che Cavour aveva scambiato con Napoleone III, ratificate da plebisciti farlocchi, in cambio dell’Unità. Piccoli calcoli dinastici ed egoistici in un conflitto immane, confermati dalla farsa del trono di Croazia al riluttante Aimone d’Aosta e di quello del ricostituito Regno del Montenegro al nipote di Elena, Michele I, ultimo re nominale, che non volle accettare, convinto – come racconta Ciano nel suo Diario, il 7 giugno 1941 – del finale ‘squasso di legnate’ per l’Asse! Con l’età gli orizzonti dell’uomo si erano erano ulteriormente ristretti. Poi vennero il 25 Luglio, l’8 Settembre, la resa, la fuga di Pescara, la Luogotenenza di Umberto, l’abdicazione, la morte in esilio ad Alessandria d’Egitto, il 28.12.1947. Fu sposato ad Elena per oltre 51 anni.
Elena, nata Jelena (Cettigne, 8 gennaio 1873-Montpellier, 28 novembre 1952), fu regina d’Italia per 46 anni, ‘Serva di Dio’ per la Chiesa cattolica. Educata ai valori ed all’unione della famiglia, crebbe modesta e riservata, molto attaccata alle tradizioni, di animo sensibile, mente vivace, curiosa, con un forte attaccamento alla natura, ai fiori. Studiò nell’ Istituto Smol’nyj per Nobili Fanciulle – fondato a San Pietroburgo da Caterina la Grande – frequentò la Casa Imperiale russa e collaborò con la rivista letteraria Nedelja, pubblicando poesie. Per la sua vicinanza ai malati, l’importante impegno medico ed infermieristico, per la sua straordinaria umanità è la personalità di Casa Savoia ricordata in modo più positivo dall’opinione pubblica italiana, anche dopo l’avvento della Repubblica. La figura di Elena colpì l’immaginario di scrittori, poeti, musicisti. (Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Elena_del_Montenegro).
Asceso al Trono, conformemente alla tradizione dinastica e nel rispetto puntiglioso dello Statuto, Vittorio Emanuele III esercitò una considerevole azione nel campo della politica estera e militare. Pur mantenendosi nel solco della difensiva Triplice Alleanza, che era stata stipulata vent’anni prima in funzione antifrancese – e benedetta da Londra – egli, di animo antitedesco, sostenne il ravvicinamento alle Potenze contro le quali era stata costituita: la Russia, che ostacolava i disegni di espansione austriaci nei Balcani, e la Francia, di cui i tedeschi temevano l’ansia di revanche. Si riavvicinò alla Francia con lo Scambio di Note Prinetti-Barrère (luglio 1902), che impegnava le due potenze a mantenersi neutrali nel caso di conflitto con altre Potenze.
La politica estera italiana marciava verso il principio delle ‘mani libere’, nel solco della politica crispina d’interesse per l’area, di cui la più evidente manifestazione di ravvicinamento era stata proprio il matrimonio di Vittorio Emanuele con Elena di Montenegro: un’intesa con la Russia era il necessario corollario delle direttrici di politica estera nei Balcani, il cui status quo era incerto, per la crisi turca e gli appetiti austriaci e russi, fra i quali l’Italia intendeva inserirsi, cercando, in ispecie, di limitare i tentativi dell’alleato asburgico di approfittare della situazione, come in occasione dell’annessione della Bosnia-Erzegovina nel 1908 (che già occupava dal 1878), senza ‘compensazioni territoriali’ all’alleata. L’Italia guardava ai Balcani quale potenziale area d’influenza per la propria politica ed economia. Di fronte alle concomitanti mire espansionistiche dell’attiva Serbia, guidata dai congiunti della regina, Vittorio Emanuele si pose quale mediatore per la creazione di uno Stato cuscinetto: l’Albania. Tutti, presi dalla frenesia espansionistica, avevano dimenticato la saggezza, politically incorrect, del Metternich, per il quale i Balcani non facevano parte dell’Europa: “L’Asia inizia dalla Landstrasse”, la strada che iniziava da Vienna con direzione Sud-Est; e poi del Bismarck, secondo il quale: “I Balcani interi non valgono le ossa di un solo Granatiere di Pomerania”; dimenticate le loro oculate politiche di equilibrio per la pace.
Nel 1909 lo zar Nicola II giunse a Torino, ospite del re Vittorio Emanuele III a Racconigi, residenza estiva della Famiglia Reale. La visita aveva lo scopo di rafforzare le buone relazioni tra le due Famiglie e discutere, al riparo da occhi indiscreti, della questione balcanica e della crescente influenza austriaca in quella zona, e lontano da possibili dimostrazioni anarchiche. Pur di evitare il territorio della rivale Austria, lo zar aveva allungato di circa 3.000 chilometri il tragitto che il treno imperiale avrebbe percorso. Nicola aveva preferito partire da Varsavia, attraversare Germania e Francia e giungere passando da Bardonecchia. Lo zar visitò la Basilica di Superga e le tombe dei Savoia, rimanendo colpito, raccontano le cronache del tempo, dai colori che l’autunno dipinge sulle colline torinesi, prima di raggiungere Racconigi, dove si fermerà tre giorni. Lo zar parla in russo con la regina Elena, in inglese con Vittorio Emanuele III, mentre con Giolitti usa il francese. Il 24 ottobre 1909 è firmato tra le due Potenze il Trattato di Racconigi, che da parte russa pone fine alla politica di accordi esclusivi con l’Austria sui Balcani, per i quali si prospettava l’attuazione del principio di nazionalità ed un’azione diplomatica comune di Russia ed Italia; inoltre, la Russia riconosceva l’interesse italiano per la Tripolitania-Cirenaica.
La storiografia ha sottolineato il ‘disimpegno’ politico della Regina Elena dalle scelte del marito, ma è evidente un suo pur discreto ruolo nel distacco progressivo, prima del 1914, dagli alleati della Triplice Alleanza (gli innocui ‘giri di valzer’, per il Cancelliere tedesco von Bülow, 1902), sia per il Trattato con lo zar, sia per i forti vincoli affettivi e familiari di Elena (cognata di Granduchi Romanov, del Re Pietro e zia del futuro Alessandro I di Jugoslavia) verso il mondo balcanico panserbo e panslavo, russofilo e francesizzante, oltrechè spesso massone. Fu con Crispi che si delinea il non-felice coinvolgimento italiano con le vicende dell’altra sponda adriatica. Seguiranno l’occupazione di Valona, il protettorato sull’Albania, poi l’annessione dell’Albania alla Corona, infine la disastrosa guerra di Grecia nel 1940, l’occupazione della Slovenia, del Montenegro, per gentile concessione dell’alleato germanico; il farsesco Regno di Croazia, dove Aimone d’Aosta, Re Tomislav II, non volle mai mettere piede, temendo d’essere subito assassinato! Giù, fino alle velleità del veneziano Gianni De Michelis nella crisi del dopo-titoismo e nella stagione craxiana.
Il Montenegro aveva preparato l’unificazione della Serbia per oltre 50 anni. Un po’ come avevano fatto i Savoia dal periferico Piemonte. Nicola I aspirava a diventare il Capo di tutti i serbi, ma i suoi progetti fallirono nel 1903, con il colpo di Stato militare a Belgrado che provocò l’assassinio e squartamento di Re Alessandro Obrenović (quello che la figlia di Nicola non volle sposare!) e della detestata moglie Draga, filoaustriaci, mettendo sul trono Pietro Karađorđević (suo genero, peraltro, ma panserbo). La popolazione dei due regni si divise tra i fautori di un unico Stato serbo, guidato da Belgrado, o di una Confederazione. I politici montenegrini propendevano per l’unità, considerando le limitazioni del Paese montuoso, mentre Nicola sosteneva l’idea confederale. Purtroppo, i figli di Nicola non avevano ereditato la vigorosa personalità del padre, la sua ambizione. Ed il piccolo Regno multietnico era troppo fragile, senza risorse e prospettive.
Quando scoppiò la Guerra dei Balcani, nell’ottobre 1912, Nicola ne fu uno dei più accesi fautori, per respingere definitivamente gli Ottomani fuori dall’Europa.
La Serbia, appoggiata dalla Russia, siglò un’alleanza militare con la Bulgaria, alla quale si unirono Grecia e Montenegro in una Lega Balcanica contro la Turchia, occupata nella guerra di Libia, ch’ebbe successo. La Serbia rimase come l’unica Potenza regionale, con la Romania, e l’unica filorussa. La dipendenza russa di Belgrado per consolidare il suo ruolo nei Balcani fu un fattore assai rilevante, probabilmente decisivo, per la scoppio della Guerra Mondiale. Le principali cause della guerra includevano molti fattori, i conflitti e le ostilità dei quattro decenni precedenti, il militarismo, le alleanze, l’imperialismo, il nazionalismo etnico esasperato. Tuttavia, le origini immediate della guerra risiedevano nelle decisioni prese da statisti e generali durante la crisi del 1914, che fu provocata dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria a Sarajevo ad opera dell’organizzazione segreta serba, la ‘Mano Nera’. L’ambizione panserba di Belgrado, unita al panslavismo russo, furono, in effetti, le fatali scintille della Prima Guerra Mondiale.
Scoppiato il conflitto a fine luglio 1914, Nicola I fu tra i primi a decidere l’invio di truppe in Serbia come sostegno per far ritirare le forze austriache dalla penisola balcanica, anche se l’Esercito montenegrino era esausto dopo due anni di dura lotta. L’entrata in guerra del Regno di Bulgaria a fianco degli Imperi centrali segnò il destino di Serbia e Montenegro: il 6 ottobre 1915 truppe austro-ungariche e tedesche, agli ordini di August von Mackensen, invasero la Serbia da nord, mentre le forze bulgare mossero l’11 ottobre da est, occupando la regione della Macedonia e tagliando i collegamenti tra i serbi e le forze della Triplice Intesa, sbarcate in loro aiuto a Salonicco. Sconfitti e soverchiati dalle forze degli Imperi Centrali, i serbi intrapresero una difficile ritirata attraverso l’Albania settentrionale alla volta della costa del mar Adriatico, dove i superstiti furono tratti in salvo con il contributo determinante della Regia Marina italiana. Per la fine del novembre 1915 l’intera Serbia era ormai sotto occupazione da parte degli Imperi Centrali. Nel gennaio 1916 toccò al Montenegro chiedere l’armistizio agli austro-ungarici, le cui modalità determinarono, peraltro, uno strascico di disapprovazioni da parte serba.
Nicola I raggiunse la Francia, attraverso l’Italia, cercando uno scenario ben visibile. Volle stabilirsi a Lione, ma dovette recarsi a Bordeaux. Nel marzo 1916, il governo russo rigettò la richiesta di Re Nicola di viaggiare a Pietrogrado. La Rivoluzione d’Ottobre accentuerà poi il suo isolamento. Dal maggio 1916 egli fu trasferito a Neuilly, presso Parigi. Lo accompagnava il Primo Ministro Lazar Mijušković. La fine del conflitto gli costò nel 1918 la perdita definitiva del regno. Aspirava a diventare l’unificatore dei serbi e finì, invece, come un vecchio despota esiliato.
Da Corfù, dove si era rifugiato a seguito dell’operazione austro-tedesca, il reggente Alessandro di Serbia ricostituì il suo esercito e lo portò a Salonicco per combattere sul fronte macedone con l’aiuto degli alleati, dove vinse diverse battaglie tra cui quella di Kajmakchalan che invertì le sorti del conflitto. Con la battaglia di Dobro Pole, combattuta il 15 settembre 1918, fu concluso vittoriosamente il conflitto con la Bulgaria. Il reggente nipote Alessandro, con la complicità francese – del generale Franchet d’Esperey, comandante alleato del fronte macedone, soprattutto – ed in chiave antiitaliana in primo luogo, sfilò al nonno Nicola il Regno che aveva dovuto abbandonare. Una ‘Grande Assemblea Nazionale’ fu costituita, sotto controllo di autorità di Belgrado, a Podgorica, la maggior città del Paese, che il 25 novembre 1918 procedette a deporre Nicola I e la sua dinastia Petrović-Njegoš. Frattanto, il gesuita sloveno Anton Korošec, leader del Partito Popolare Sloveno, il politico serbo Svetozar Pribićević ed il medico croato Ante Pavelić – omonimo del più noto Ante Pavelić, ‘poglavnik’ dello Stato Indipendente di Croazia (1941-1945) – avevano dato vita, il 29 ottobre 1918, allo Stato degli Sloveni, Croati e Serbi, proclamando autonomamente l’indipendenza dei territori slavi dell’Impero austro-ungarico e fissando la capitale (provvisoria) a Zagabria. Lo Stato diverrà il Regno di Jugoslavia nel 1929, con la dinastia Karađorđević.Il suo re Alessandro I sarà assassinato a Marsiglia nel 1934 da un indipendentista macedone.
Uno sgarbo al nostro re, un atto contro gli interessi degli alleati italiani da parte francese. Nel 1918 Nicola I fu esiliato ad Antibes, da dove non riconobbe la deposizione e continuò a proclamarsi re fino alla morte, tre anni dopo. Nel 1921 Nicola si spense e gli succedette il primogenito Danilo II che, però, pochi giorni dopo abdicò a favore del nipote Michele, che divenne così re nominale, non avendo ancora le grandi Potenze deciso sulla sorte del Montenegro, occupato al momento dalla Serbia. Poiché Michele era minorenne, la nonna Milena assunse la reggenza assieme al Presidente del governo in esilio. La Conferenza di Pace di Versailles, di lì a poco – nonostante le proteste italiane, al solito ignorate – riconoscerà nel 1922 l’annessione del Montenegro alla Serbia, togliendo ogni speranza a Re Michele. I montenegrini rimasti fedeli alla dinastia Petrović si ribellarono nel 1919, per poi esser vinti dall’esercito del nuovo Stato nel 1924.
Nel 1989 le salme di Nicola I e della regina Milena sono state portate dalla chiesa russa ortodossa di Sanremo in patria ed inumate nella cappella di Cipur, a Cettigne. Capo della Famiglia Reale e pretendente al trono del Montenegro è oggi Nicola (n. 1944) il figlio del ricordato re Michele I e dell’attivista comunista francese Geneviève Prigent. Se Cinecittà fosse Hollywood, la vita di re Nicola e della sua famiglia sarebbero forse state portate sugli schermi…