Il posizionamento nei confronti del governo Draghi dei due principali partiti di centro-destra lascia intravedere non solo una precisa cooperazione tattica fra Lega e Fratelli d’Italia ma anche, e qui la prospettiva cambia, una diversa visione geopolitica.
Nulla cambierà alle prossime elezioni: Fdi e Lega si scambieranno pezzi di un elettorato ormai fidelizzato nel campo della storica alleanza, fra realisti, produttivisti, no-euro e no-iussoli; a Giorgetti il compito di riposizionare la Lega verso Nord e Confindustria, senza perdere troppo dei consensi nazionali ottenuti dal Salvini copista dei contenuti targati CasaPound.
Alla Meloni il campo libero fra gli arrabbiati senza disperazione: bottegai, partite iva, commercianti, con un occhio di riguardo alle statistiche sugli sbarchi timbrati Lamorgese. Il 2023 è vicino, i pronostici elettorali sembrano sorridere.
Tuttavia la divisione sul voto di fiducia al governo Draghi dice qualcosa di più interessante sulla scelta di campo internazionale. Se entrambe le formazioni restano chiaramente all’interno del perimetro atlantico, la Lega di Giorgetti sembra essere tornata agli anni ’90, quando la giovane classe dirigente leghista assaporava le lezioni di Miglio e del filone libertario austriaco e l’aggancio della Padania al Marco tedesco non pareva un’utopia cosi lontana.
Venticinque anni di euro (deflazione e deindustrializzazione) hanno reso l’opzione tedesca pressoché la realtà economica nazionale: il Nord Italia continua ad avere un rapporto crescente di dipendenza diretta, fra indotto, commesse e commercio, con il mercato di Berlino; inoltre, una buona dose dell’export globale italiano prima di arrivare a destinazione, passa preferibilmente per il performante mercato tedesco.
Giorgetti al Mise, arriva dunque per garantire quel delicato equilibrio occidentale, dentro al quale la Germania mantiene un ruolo di primissimo piano, potendo sviluppare interessi e opzioni commerciali verso est e verso sud. E non solo in chiave squisitamente atlantica. La nuova Lega europeista assomiglia cosi ad una forza di governo di un’Italia padanizzata, capace di giocare a Bruxelles un ruolo non solo di mero compromesso. Obiettivo politico interno: far pagare questi venticinque anni di padanizzazione forzata al solo Partito Democratico.
Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia hanno compiuto un viaggio in direzione differente. Il profilo anti- europeista risulta tanto marcato nelle scelte geopolitiche, quanto morbido e velato nei toni e nei proclami. Lo storico gruppo dirigente romano di Fdi, da sempre vicino alla comunità ebraica della capitale, grazie a Raffaele Fitto ed alcuni intellettuali neoconservatori è entrato prepotentemente nella rete dei conservatori britannici. La nomina della Meloni a leader del gruppo euroscettico Erc (Conservatori e Riformisti), storico gruppo dell’europarlamento guidato fino alla Brexit dai Tories e ponte con il Likud israeliano, riassume l’ascesa della giovane leader della destra in quel preciso segmento di stampo anglosassone. Ascesa confermata dall’ingresso della Meloni stessa nell’Aspen Italia.
In poche parole, qualora il governo di Mario Draghi dovesse clamorosamente fallire, un riposizionamento in stile Ukip del partito della destra nazionale, in chiave Italexit avrebbe un clamoroso sostegno geopolitico e finanziario.
Ogni scenario lascia presagire per il centro-destra una via verso una facile vittoria elettorale e la costituzione di un governo con solide coperture internazionali. Gli unici sconfitti, quei settori del deep-state, del Vaticano, e del Movimento 5 Stelle che in questi anni di repentina scottatura europeista hanno provato a riposizionare maldestramente l’Italia sulla Via della Seta.
“Ogni scenario lascia presagire per il centro-destra una via verso una facile vittoria elettorale e la costituzione di un governo con solide coperture internazionali”. Magari, ma appare così scontato? Per me no, purtroppo.
Niente di nuovo sotto il sole: la ‘destra’ è da sempre al servizio degli atlantici.