La lezione di Paolo Isotta è stata quella della libertà, dell’amicizia e della vita degna di essere vissuta. Autentica, antica e classica; aristocratica nello spirito, la libertà praticata e non sbandierata, richiesta, imposta. Ma quale diritto! La libertà è coraggio, vissuta e insegnata come quel lusso che ti fa uomo di fronte agli altri uomini.
La forza, non banale né scontata, di affermare con vigore che la grandezza è in un verso di Virgilio, un passo di Manzoni o di Flaubert, nell’inno a Venere di Lucrezio, nelle icone della Magna Mater e della Piedigrotta, nella Musica non nelle rivisitazioni, nelle riletture interessate né nelle sovrastrutture ideologiche di ogni sorta: quelle sono la consolazione dei cretini. Fosse stato più indulgente con loro! Oggi le bandiere della Cultura sarebbero a mezz’asta per la scomparsa (almeno) di un senatore a vita.
La libertà non si frigna, né si chiede: si prende, si pratica, si rivendica ogni giorno. Con lo studio, che per altri sarebbe stato matto, disperatissimo, insostenibile: per lui invece fu compimento e godimento. La fame atavica, quella degli scugnizzi a cui lo paragonò l’amico Stenio Solinas, di conoscenza, di sapere e una memoria di ferro, lunghissima, elefantina d’onde il culto che ebbe dell’animale, ne fece un suo totem. E la voglia matta di tirarla in tasca ai padroni del vapore, ai parrucconi di ogni tempo (specialmente dei suoi, dei nostri), agli scendiletto di ogni conventicola a cui, negandosi sempre e irrevocabilmente, finì per dichiararsi nemico giurato. Non aveva mica il gusto non della provocazione fine a se stessa ma della riaffermazione della verità e dei principi altissimi che gli discendevano dal retaggio greco e romano, napoletano ed europeo, al cui cospetto impallidisce di vergogna e inconsistenza la moralina borghese e braghettona praticata dai detentori della contemporaneità. Non era una scelta, era la sua stessa natura che glielo imponeva. Fosse stato una stilla meno del genio che fu, da un pezzo i tanti – troppi – nemici che ebbe, lo avrebbero fatto fuori. E invece, alla faccia loro, mai ci riuscirono.
Ha ragione l’amico suo Pietrangelo Buttafuoco che all’altro amico suo Michele De Feudis ha detto: Isotta non fu critico né giornalista, né storico della musica né saggista. Fu genio e fu artista, dannunziano negli slanci di generosità disinteressata.
È stato amico generosissimo e leale: la tradizione greca ed epicurea della sua amatissima Napoli l’ha praticata, non l’ha tenuta in una teca museale, non ne ha fatto feticcio e, anzi, di ciò s’adontava e non poco quando nella sua città non riconosceva più la capitale nobilissima e plebea di Croce e Totò ma era costretto a registrarne il decadimento nelle parlate corrotte e nei tic degli homines novi, borghesi o aspiranti tali (il popolo non c’è più!). L’amicizia come la più alta conquista della saggezza: un uomo senza amici non è niente. Epicuro e poi Orazio, è stato l’ultimo – grande e accecante– lampo di una tradizione antichissima e umanissima allo stesso tempo, scomoda a ogni sistema di pensiero ingabbiante e dis-umano, a ogni ideologia: religiosa, politica, culturale.
È stato amico di Barbadillo, e chi scrive a lui deve tanto. Però qui non si parla di noi ma dell’uomo che ci ha ricordato come la libertà sia coraggio, fame, studio, dignità, intelligenza, raffinatezza e passione. Ci ha imposto il dovere umano, troppo umano, di votarsi totalmente alla bellezza e alla grandezza. Come Lucio nell’Asino d’Oro di Apuleio che interamente si votò all’ineffabile divinità di Iside riscattandosi dalle sembianze di somaro. Addio, Maestro.
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Peccato che le Parche non gli abbiano concesso almeno altri 10-15 anni di vita fruttuosa.