Essere nella storia, quella che travolge e non risparmia nessuno. La narrazione di Carlo Mazzantini è realismo che vale un quadro di Goya. È narrazione che parte dai giorni tragici del settembre 1943, in quel tempo in cui “qualcosa di nuovo” sembrava “stesse per nascere nel caos delle illusioni.” Furono queste le illusioni dei giovani. Di chi visse nei ricordi dei padri e decise di continuare a combattere, di fare la scelta difficile, la propria scelta, per rimanere sino alla fine con gli amici in un battaglione di Camicie nere.
Scriveva Carlo Mazzantini, ben lo sapevano i giovani della Repubblica sociale, che sarebbe finita male. Che nulla sarebbe tornato come prima. E che la scelta fascista repubblicana fosse un’opzione esistenziale. E non rimaneva che ripetere infine, “Mi ci immaginate a me andare in ufficio la mattina, con la borsa sotto il braccio, la cravatta?”
Questo è il romanzo dei ragazzi con il mito della ‘rivoluzione nera’. Di camerati che raccolgo i resti umani dell’amico caduto. Di vicende umane che entravano nella storia, giacché vi era “la consapevolezza di essere spettatori della fine di un’epoca. Un’epoca che andava al di là di quella specifica vicenda, un filone antico, che sprofondava nel passato, in tempi di faide feroci, di violenze di parte, di bianchi e neri,..” Con una sensibilità post-ideologica, rileggere pagine straordinarie di letteratura realistica, che meritarono il successo della traduzione in inglese e oggi trovano un’altra riedizione.
E con le domande di sempre, nel nostro periodo in cui la parola Italia scricchiola, il libro di Mazzantini ci cattura ancora:
“L’Italia? Sotto quei monti, il vento che infuriava fuori, la catasta dei fuciloni, la disperazione, la sconfitta, quelle nostre uniforme sdrucite, tutta quella miseria… L’Italia? Che significava? C’era ancora l’Italia?”