(da Manga Academica, 13)
Lasciare il segno, letteralmente: questo potrebbe essere il filo conduttore che lega i tre soggetti che verranno analizzati in questo saggio. Un film, un manga, e la relativa trasposizione animata, e un geniale architetto italiano, il cui estro, malgrado la prematura scomparsa, è stato, come avremo modo di vedere, di forte ispirazione per la cultura europea e mondiale. Sì, perché i disegni e progetti che ci ha lasciato Antonio Sant’Elia (1888-1916) sono a dir poco incredibili nella loro visionaria proposta di una città del futuro, la quale ha poi influenzato il pensiero di alcuni architetti afferenti al cosiddetto “modernismo” come, ad esempio, Le Corbusier (1887-1965).
Con la sua “città ideale”, funzionale e organizzata su più livelli, Sant’Elia è stato capace di creare uno spartiacque con la progettazione architettonica tradizionale. Un contributo, il suo, che nel tempo è andato ben oltre l’architettura, sconfinando direttamente nel cinema, suggestionando registi e scenografi. Epitome di ciò è quella pietra miliare della fantascienza nella Settima Arte rappresentata da Metropolis di Fritz Lang (1890-1976), capolavoro cinematografico dell’espressionismo tedesco del 1927, ambientato in un futuro distopico in cui le divisioni di classe sono riflesse nella struttura stessa della città, con grattacieli sfavillanti ove abitano i ricchi, contrapposti a un sottosuolo buio e polveroso, destinato a operai alienati dal lavoro. Ecco tosto sopraggiungere un aspetto nodale in Sant’Elia e che ritroveremo sia nel film di Lang che nella seconda opera che accosteremo ai disegni dell’architetto italiano, Akira di Katsuhiro Ōtomo, pietra miliare del cinema di animazione giapponese del 1988; sempre e comunque la verticalità quale espressione concettuale.
Da qui il passo è breve, per capire che al centro della nostra speculazione vi sarà la città della fantascienza, quella, ad esempio, resa immortale da Blade Runner (1982) di Ridley Scott. Affrontando questo tema, ci si accorgerà come vari importanti autori in media differenti abbiano dimostrato il medesimo interesse verso i materiali delle forme architettoniche, nonché per quella frenesia emanata dall’elettricità, simbolo del progresso tecnologico che ritroviamo nelle visionarie, seppur giammai “allucinate”, strutture che alimentano la forza prorompente della metropoli immaginata da Sant’Elia. Il tutto per dire che la sua è una eredità che ha viaggiato quasi sottopelle: Ōtomo, non sapendolo, ha ripreso in larga misura la città di Sant’Elia.
1. Antonio Sant’Elia e la visione del futuro
Antonio Sant’Elia nasce a Como, dove consegue il diploma di Capomastro edile nel 1905, cosa che gli permette di lavorare per le opere di completamento del Canale Villoresi. In occasione di una sua esperienza lavorativa a Milano, egli viene a contatto con i problemi della crescita, spesso incontrollata, della metropoli, pur rimanendo affascinato dalle innovazioni tecnologiche promosse dall’allora amministrazione meneghina. Forse è da qui che inizia la sua speculazione sulla città del futuro. Il fatto curioso è che sono solo due le opere effettivamente costruite su suo progetto. Queste sono la Villa Elisi, in località Le Colme di San Maurizio sopra Brunate, e il Monumento ai Caduti, sempre a Como, portato però a termine da Giuseppe Terragni (1904-1943), con la collaborazione del fratello Attilio (1896-1958). Ciò suggerisce quanto le architetture santeliane fossero pensate per il futuro e non per il presente; da qui il motivo del loro successo quale fonte di ispirazione per la science fiction.
Apriamo una breve “parentesi” al di fuori della stretta esegesi cinematografica, tuttavia assolutamente necessaria, onde fornire al lettore adeguate nozioni sulla figura e carriera di Sant’Elia e sulla Architettura Futurista in generale. Ci teniamo a precisare che da tempo ci siamo mostrati nei nostri scritti assai critici verso quella saccente ultra-specializzazione tipica della Accademia anglofona. Così si spiega la scelta di soffermarci ora su ragionamenti che non sono riconducibili ai manga e agli anime. Onestamente, senza le adeguate competenze storico-artistiche, anche un esperto di fumetto giapponese troverebbe non poche difficoltà nel cimentarsi col tema affrontato in questo saggio. Il tutto per dire, ricollegandoci anche alla universalità tipica della antica sapienza italiana, che per proporre talora indagini più ampie del ridotto ambito settoriale, è consigliabile aprirsi a un certo grado di multidisciplinarietà. Quindi, faremo adesso riferimento a una mostra tenutasi solo pochi anni fa e dal grandissimo valore documentale per quanto concerne l’idea di spazio, progettazione e, va da sé, architettura in ambito futurista, ove l’assoluto protagonista fu proprio Sant’Elia.
1.1. Ripercorrendo la mostra di Rovereto, per capire meglio il rapporto tra città e Futurismo
L’evento in questione portava il titolo La Città Utopica. Dalla metropoli futurista all’eur42 e si è tenuto, dal 30 aprile al 6 novembre 2016, in una sede distaccata del mart di Rovereto; in quel luogo assolutamente unico che è la Casa d’Arte Futurista Fortunato Depero, in occasione delle celebrazioni nate intorno ai cinquecento anni dalla pubblicazione del testo Utopia (1516) di Thomas More, sono stati esposti disegni, progetti e documenti provenienti dalle collezioni dello stesso mart, ma anche dal Museo Civico “Ala Ponzone” di Cremona, dall’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Bologna e dagli archivi di Luigi Saccenti e Quirino De Giorgio di Vigonza. Opere grafiche che hanno rappresentato il tema della città come luogo privilegiato della modernità, del futuro, della velocità, tutte parole chiave del movimento futurista.
Nei lavori dei protagonisti che sposarono a inizio del xx secolo tale corrente artistica, il paesaggio urbano da statico divenne “mobile”, in funzione della nuova ideologia della macchina. La mostra di Rovereto ha presentato i percorsi di cinque grandissimi esponenti di quel periodo nell’ambito della progettazione: Tullio Crali, Quirino De Giorgio, Angiolo Mazzoni, Adalberto Libera e, soprattutto, Antonio Sant’Elia, la cui straordinaria, quanto ardita, visione architettonica faceva da filo conduttore della esposizione.
Molti architetti hanno contribuito tra le due guerre alla costruzione di una versione tutta italiana della utopia, la quale parte dalle cosiddette città di fondazione dell’Agro Pontino, per terminare col sogno interrotto dell’e42. Quella di cui stiamo parlando è stata una mostra di una architettura d’archivio, incompiuta nel concreto, ma non certo nella riflessione, che per l’appunto al di fuori dell’architettura stessa ha trovato la sua realizzazione, partendo dal cinema sperimentale tedesco degli anni Venti, per arrivare alla più tipica, talora anche stereotipata, concezione della megalopoli presente in moltissimi anime e manga.
Ciò che veramente ci interessa di questa esposizione è la nettezza con la quale è stata avanzata una tesi che, a nostro avviso, risulta pressoché innegabile. Ovvero, l’utopia si manifestò nel nostro Paese attraverso la visione dei futuristi, ma venne, almeno parzialmente, concretizzata dall’architettura razionalista. Molto si deve a quel dipinto spartiacque di Umberto Boccioni che è La città che sale (1911, olio su tela), con cui si introdusse prepotentemente una rappresentazione totalmente simbolica del contesto urbano, che coincise con la celebrazione del progresso e l’incessante movimento della civiltà industriale.
Il vero fulcro di questa mostra è stato, tuttavia, Antonio Sant’Elia: un tipo di genio un po’ folle, il cui estro eccentrico non gli impedì di maturare una ben meditata analisi su quello che avrebbe dovuto essere per lui un nuovo modo di pensare l’architettura e la città. Un punto di svolta è stato il suo Manifesto dell’architettura futurista (Milano, 11 luglio 1914), con tutto il suo enorme portato di modernità, e la ferma volontà di rompere con la Tradizione: «[…] un’architettura che abbia la sua ragione d’essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna […]. Quest’architettura non può essere soggetta a nessuna legge di continuità storica. Deve essere nuova come è nuovo il nostro stato d’animo». Le parole di Sant’Elia echeggiano ancora oggi per il loro vigore, per la inarrestabile vitalità che esprimono. Generando, perché no?, una certa nostalgia nei riguardi di una visione “eroica” dell’arte, in una epoca come la nostra, in cui il conformismo è imperante. E come fu dirompente la idea di metropoli santeliana, parimenti lo furono rispettivamente il film di Lang e il manga e poi anime di Ōtomo, nel segno di una innovazione anticonformista e impavida, consapevole che l’uomo moderno deve rassegnarsi a essere mero elemento dello spazio urbano.
Tornando alla mostra, la curatrice, Nicoletta Boschiero, descrive sinteticamente, ma in modo cristallino, la fulgida e purtroppo breve parabola creativa di Sant’Elia (morto nemmeno trentenne al fronte della Grande Guerra), quale una: «[…] concezione di architettura sperimentale affrancata dall’onere di una costruzione reale». La studiosa indica giustamente una dicotomia che rianima la questione su come, mentre nel disegno e nella pittura si cerchi di inserire forme in uno spazio immaginato e soggetto alle regole dell’artista, per converso in architettura si tenti di conquistare e vincere lo spazio proprio con le forme. Non condividiamo, invece, la sua idea che quelle realizzate durante il Ventennio siano solo delle città utopiche, visto che ella sostiene che:
L’immagine offerta dalle città pontine è quella di uno spazio predisposto per una funzione simbolica, adatta a officiare i riti del regime, per celebrare le sue disciplinate manifestazioni popolari. Sabaudia sembra per altro anticipare il concetto di non luogo, di città senza un’identità precisa e riconoscibile, essendo gli spazi senza storia e quindi inadeguati ad accogliere le relazioni tra le persone che vi abitano.
Infatti, come si può ignorare che le città di fondazione prima e l’eur poi siano stati capaci di radicarsi nell’immaginario popolare, tanto da diventare set prediletti da cineasti del calibro di Federico Fellini, Elio Petri e, più recentemente, Paolo Sorrentino? Riteniamo che sia più corretto affermare che la concezione urbanistica durante il Ventennio, la quale ha senza dubbio tenuto a mente i disegni di Sant’Elia, avesse una chiara propensione verso una utopia di stampo sociale – portata però a uno stadio solo iniziale di compimento – aspetto che la fa ormai considerare da parte di molti studiosi come la massima espressione dell’architettura del xx secolo. Siamo certamente più d’accordo con la Boschiero quando definisce l’eur un: «[…] luogo predestinato ad una narrazione utopica […]». Vi è, infatti, in questo, che è l’ultimo tra i nuovi quartieri di Roma, una anima capace di raccontare come se fosse una singola idea che ha preso forma di ragionamento. Nuovamente, non possiamo evitare di pensare alla lezione di Sant’Elia, che dalla progettazione è stata capace di sollecitare concetti plasmabili da diversi tipi di espressione creativa quali, nel nostro caso specifico, il cinema e il fumetto.
Esaminando più da vicino i disegni dell’artista comasco che sono stati in mostra, e che lasciano trasparire quella idea futuribile di città che è al centro del nostro ragionamento, divenuta in seguito una fertile eredità da cui trarranno ispirazione registi, illustratori e scrittori, troviamo il suo disegno per il concorso per il Diploma di Professore di Disegno Architettonico presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna: Facciata con portale di un transetto di grande chiesa metropolitana di una città capitale (1912). Questa opera grafica è forse l’epitome del modo che egli aveva di concepire degli edifici praticamente “da fantascienza”, esprimendo una curiosa ripresa delle forme geometriche di derivazione assiro-babilonese, con quella loro monumentalità che si distacca dall’uomo, facendo dei palazzi delle entità a sé che sovrastano il brulicare della frenetica vita sottostante, cosa che ritroviamo nell’Akira di Ōtomo: poco importa che vi sia una “motoguerra” in corso per le strade, i palazzi si stagliano comunque alti e colossali. Non è un caso, allora, che nella mostra di Rovereto si sia ricordato come il lavoro di Sant’Elia abbia influenzato il cinema a partire proprio dal Metropolis di Lang. A conferma, che se mai è esistita una interpretazione univoca di come dovesse essere la città del futuro, questa si è generata per merito di un italiano chiamato Antonio Sant’Elia.
Considerando il tema della mostra, è stato dato molto spazio al succitato Fortunato Depero, segnatamente con il suo capolavoro New Babel (1930, tempera su cartoncino), dove troviamo un Depero sorprendentemente “violento” nella sua “meccanica”. Infatti, questo straordinario artista, uno dei più eclettici tra i futuristi, durante il suo soggiorno a New York (1928-1930) viene influenzato dalla grande metropoli statunitense, cosa che lo spinge ad abbandonare quel suo caratteristico spirito “ludico-naïf”, sovente legato al mondo dei giochi. «[…] l’inferno e il paradiso di cosmopolita congestione», così egli descrive la sensazione provocatagli dalle sagome dei grattacieli svettanti sopra la città e dalla folla formicolante che vi si agitava al di sotto. In effetti, questi erano per lui elementi in perfetta adesione allo stile di vita futurista, e parimenti un drammatico contesto di isolamento e alienazione, il medesimo che troveremo molto tempo dopo nel “proto-cyberpunk” di Ridley Scott e nella Neo-Tōkyō postatomica di Katsuhiro Ōtomo.
La esposizione roveretiana ci consente anche di riflettere sulla prospettiva attraverso la quale è stata sistematicamente “inquadrata” la distopica città del futuro. Qui sono stati difatti presentati i lavori di Gerardo Dottori (1884-1977), il maggiore tra gli esponenti della cosiddetta “aeropittura futurista”, come pure quelli di Tullio Crali (1910-2000), il quale riprese al meglio le “visioni” di Sant’Elia, pensiamo ad Aeroporto stazione. Aeroporto urbano (1931). Ancora una volta ritorna il debito di una intera epoca verso questo artista, e non stupisce perciò che il fascismo si rese presto conto della importanza di Sant’Elia, celebrandolo quale «uno dei maggiori orgogli» del regime, come recita il manifesto delle Onoranze all’architetto futurista Antonio Sant’Elia (Como, 1930). Tuttavia, quello che ci interessa segnalare, è che con l’aeropittura futurista si consolidò il lascito visivo santeliano, spostandone solamente la prospettiva in modo quasi zenitale, nel rappresentare il soggetto urbano come una massa sottostante il punto dell’osservatore, il quale ha la sensazione di stare precipitando sopra di esso, quasi fosse una picchiata di un caccia, cosa espressa in modo quintessenziale nel quadro di Crali, Incuneandosi nell’abitato (“In tuffo sulla città”) (1939, olio su tela), facente parte proprio delle collezioni del mart. Inoltre, a pensarci meglio, queste sono le stesse “inquadrature” presenti in Akira, laddove in Metropolis e Blade Runner sussiste la più sobria e semplice prospettiva aerea di Sant’Elia.
Un dato critico va comunque chiarito, anzi messo nero su bianco. La tematica urbana, onnipresente nella produzione futurista, ha prodotto soluzioni assai meno brillanti in architettura, limitandosi perlopiù a delle esercitazioni grafiche. Uno studioso della qualità di Manfredo Tafuri (1935-1994) identifica con precisione tale limite: «Si tratta di quella avanguardia che, alla prova decisa dei fatti, nello scontro con le forme di costruzione e mediazione del consenso, è stata ridotta a pura propaganda». Se è vero, come indica Tafuri, che l’architettura futurista abbia trovato una cristallizzazione nel confine tra teoria e prassi, non possiamo non ravvisare nel suo pensiero un palese “vizio politico”, che gli ha impedito di mantenere il giusto distacco intellettuale verso l’architettura di quell’epoca. Una tara vera e propria, la quale ha similmente condizionato la lettura del Razionalismo di un altro importante studioso come Bruno Zevi (1918-2000). Resta il fatto che con piacere troviamo nel catalogo che accompagna questa mostra il nome di Tafuri, un personaggio fondamentale nella storia della critica architettonica, quanto sistematicamente ignorato al di fuori di questo particolare settore di studi.
Parliamo infine di Quirino De Giorgio, forse il meno conosciuto tra i cinque artisti omaggiati nella esposizione, malgrado venne consacrato da Marinetti in persona quale un “secondo Sant’Elia”, come si capisce anche dal suo Monumento ai caduti del mare (1931), nel quale De Giorgio mutua da questo genio prematuramente scomparso quelle vertiginose linee ascensionali che Roberto Floreani ha definito “visionarietà razionale”. Pertanto, anche in questo caso, viene confermato quell’aspetto della progettazione santeliana che la vede essere quasi uno scrigno multiforme di immagini, a disposizione di chi, come Lang, ebbe l’impulso di associare la narrazione fantascientifica a una idea urbanistica. Il film Metropolis si è col tempo saldamente attestato quale prototipo della città distopica del futuro, arrivando sicuramente sino al Sol Levante. Dunque, anche determinati autori nipponici, più che riprendere le inquadrature di Lang, stavano inconsapevolmente attualizzando i progetti di Sant’Elia.
Questa abbastanza lunga parentesi sulla architettura non deve essere considerata pleonastica dal lettore, poiché, desideriamo reiterarlo, era assolutamente funzionale al nostro discorso. In aggiunta, come sosteneva un grande autore come Raymond Bradbury (1920-2012), la forma nella cosiddetta sci-fi è cruciale, essendo sempre sotto gli occhi, benché tendiamo a non comprenderne mai la importanza:
A otto anni, guardavo le copertine delle riviste di fantascienza. Erano tutte architettoniche. Amo questo genere perché è architettonico. Tutti i più grandi film di fantascienza degli ultimi vent’anni lo sono. In 2001: A Space Odissey, per esempio, quando si vede il razzo che spicca il volo, ebbene, quella è una grande città nello spazio. E anche in Close Encounters of the Third Kind, nel momento in cui la nave-madre atterra, non si tratta di una semplice nave spaziale, ma di una città. È bellissima.
2. La verticalità come elemento di uno “spazio negativo”
Benché l’articolo che sarà al centro di questa parte del nostro studio sia stato sostanzialmente il frutto delle ricerche di un giovane studente per la sua tesi di master, il contributo dell’americano Casey Riffel ha comunque avanzato delle interpretazioni degne di considerazione, che intendiamo qui analizzare. Invero, nel suo contributo, Riffel sviluppa una tesi abbastanza cruciale non solo per le nostre personali argomentazioni, ma soprattutto al fine di meglio inquadrare quelli che sono stati i passaggi che da Sant’Elia portano fino ad Akira di Katsuhiro Ōtomo. Sarebbe a dire che, mentre per l’architetto e disegnatore italiano lo spazio urbano, maestoso e dinamico, ha una positiva valenza propulsiva, in Lang viene declinato, per converso, in modo negativo. Successivamente, Ōtomo riprenderà proprio la interpretazione del contesto urbano del cineasta germanico, creando quel “legame” inconscio con Sant’Elia a cui abbiamo più volte accennato.
L’apporto di Erich Kettelhut (1893-1979) al successo di Metropolis è cosa nota tra gli studiosi del cinema espressionista tedesco. Le sue scenografie giocarono un ruolo a dir poco essenziale nel comunicare il tema distopico della pellicola, e in qualche modo glorificando la modernità. Effettivamente, se la trama del film pone in essere una profonda critica verso il processo di deumanizzazione causato dal progresso e dalla industria, al contrario, l’aspetto visivo della opera mostra la possanza e impetuosità della tecnologia. Sia come sia, Metropolis di Lang lancia una palese sfida alla idolatria della macchina, la quale ha come ultimo e infausto risultato quello di creare l’incubo dell’uomo automatizzato.
Nello sviluppare la sua distopia, Lang, coadiuvato da collaboratori del talento del sopracitato Kettelhut, ha inserito nel suo film degli elementi che rimandano fortemente alla esperienza futurista, segnatamente nella visione della città. In alcuni bozzetti di Metropolis, Kettlehut produce prospettive urbane assai simili a quelle di Antonio Sant’Elia: alte torri fatte di acciaio e vetro si ergono sopra strade a più livelli, assieme a ponti per pedoni e veicoli. Ciononostante, sono due le componenti che legano indissolubilmente questa immortale pellicola al Futurismo, seppur paradossalmente non visibili. La prima, è che in Metropolis viene generata una città senza passato, come spiega sempre Riffel: «La città in questo modo non è soltanto un generico avatar, bensì un avatar di una forma moderna (e, implicitamente, futurista) di pensare, e come tale, deve rappresentare una completa rottura con la storia». La seconda riguarda una riflessione sulla “forma urbana”, ove l’uomo non è affatto protagonista, la quale è tutta votata a una continua trasformazione. E anche nel manga di Ōtomo si percepisce latente la sensazione che la immaginaria e ultramoderna Neo-Tōkyō sembri possedere una anima propria, e questo è indubbiamente stato un fattore innovativo per il mondo dei fumetti di allora e che ha decretato il successo di Akira. Riteniamo, con un certo grado di certezza, che in questo straordinario manga si confermi la medesima verticalità come elemento di uno “spazio negativo” che connota fortemente Metropolis.
Il film di Lang, differentemente dal manga e anime di Ōtomo, riprende apertamente concetti chiave da Sant’Elia: «Flessibilità e leggerezza in architettura consentono a dei veri grattacieli di emergere, come poté osservare Fritz Lang nella città di New York City», creando in tal guisa un messaggio “ambivalente”, distopico dal punto di vista sociale, chiaramente positivo e ambizioso da quello architettonico. La città nuova (1914), il celeberrimo disegno del geniale Sant’Elia, può a buon ragione essere considerato la pietra angolare su cui il cineasta germanico ha costruito la sua idea di futuro in Metropolis. La verticalità santeliana, nella sua assolutezza, può tuttavia generare uno “spazio negativo” e apolide, argomento che sta alla base della dissertazione di Riffel, visto che «Il desiderio di staccarsi dalla gravità è analogo al desiderio di staccarsi dal passato». Un sentimento, questo, che ha poi segnato pure la modernità giapponese a partire dal secondo dopoguerra.
A tal proposito, il geniale e folle Carl A. Rotwang di Metropolis, nel creare il suo robot dalle sembianze femminili, da decenni icona icastica dell’automa di una fantascienza distopica, ricerca quell’homo novus in grado di sostituirsi all’essere umano, giacché privo delle sue fragilità. Questo “processo per il miglioramento dell’uomo” lo si ritrova pure in Akira, cioè in quei bambini fatti oggetto di esperimenti crudeli da parte del governo giapponese, così da conferirgli straordinari poteri psionici, sino alla quasi onnipotenza di Tetsuo Shima che, manco a farlo a posta, raderà al suolo Neo-Tōkyō, a conferma che nel passaggio indiretto, tramite il film di Lang, dei concetti della città di Sant’Elia, la metropoli del futuro nasce sì con un portato valoriale positivo, ma col tempo questo muta, divenendo fortemente negativo, al punto da desiderare la distruzione di questi immensi e tecnologici agglomerati urbani. Insomma, il «[…] vorticoso fiume di automobili e pedoni» auspicato da Marinetti e Sant’Elia era figlio di una epoca, i primi anni del xx secolo, in cui la tecnologia non era affatto diffusa e la si riteneva uno strumento salvifico per la società. Ben diverso sarà il discorso in Lang, che intravide l’oblio della meccanizzazione nella vita dell’uomo moderno, cosa peraltro stigmatizzata in chiave satirica, seppur acutissima, anche da Charlie Chaplin, nel suo celebre Tempi moderni (Modern Times, 1936), da lui diretto e interpretato.
In sostanza, come suggerisce sempre Riffel: «La necessità di strade a più livelli sta a indicare una sorta di estensione del desiderio maniacale dei futuristi di rompere con la storia». Nel combinare spazi verticali con le strade, l’architetto italiano concepisce quell’“abisso tumultuante” di cui parla con una veemenza tutta futurista nel suo Manifesto. Pertanto, l’interesse per lo spazio verticale, il quale, come si è spiegato, andrà gradualmente a connotarsi negativamente, trova una straordinaria sintesi in Metropolis. Pur tuttavia, la pellicola di Lang, per quanto strettamente osservante dei precetti urbanistici santeliani, presenta la città del futuro come una gabbia, fredda e spietata, della popolazione che la abita. Ciò dimostra come determinate e potenti letture dello spazio urbano finiscano per fornire al pubblico praticamente la città come una sorta di avatar, incarnazione, nel caso del film muto tedesco, della gerarchizzazione dell’imprenditore-dittatore Joh Fredersen che si manifesta, come sostiene Riffel, nelle architetture della sua città: «lo spazio verticale è un avatar per la divisione di classe». Tale “policizzazione delle forme” è completamente assente in Sant’Elia, giacché la sua, nel perfetto rispetto della tradizione italiana, è una “città ideale”, priva della presenza umana. Ragion per cui è facile accorgersi che quando però il cittadino si trova a popolare quelle strade che si snodano sotto e persino al livello stesso di monumentali palazzi in vetro e cemento, ecco che dalla utopia si passa rapidamente e nettamente a una interpretazione distopica dell’avvenire. Analizzando ancora più da vicino la questione, ci si accorge che i vari “livelli urbani” in Metropolis rivelano la volontà in Lang di porre in essere una critica nei confronti della pulsione a tratti cieca dei futuristi di estirpare il passato. Allora, possiamo affermare che il lascito di Sant’Elia, passando per il film di Lang, mantiene il suo aspetto esteriore, benché venga sostanzialmente alterato, connotandolo di un manto politico. E sarà per l’appunto questa veste grafica della città, resa iconica dal regista germanico, a venire riproposta da Ōtomo, il quale in Akira affrescherà sì una sontuosa storia tra il cyberpunk e l’apocalittico, ma non mancherà di presentare anch’egli delle questioni sociali, aggiornate alla sua epoca chiaramente, come fece Lang nel suo capolavoro. Sarebbe a dire che, dallo sfruttamento dei lavoratori e un utilizzo della scienza irresponsabile del film degli anni Venti, si passerà al narrare lo straniamento sociale dei bōsōzoku, alle prese con notti senza fine in una megalopoli priva di una precisa identità. In Lang vi è quindi un portato culturale di ribellione, non per niente erano anni quelli di grande fermento intellettuale, mentre in Ōtomo il mondo ha smarrito qualsivoglia ideale, e l’unica cosa da fare è sopravvivere individualmente.
3. Il Metropolis “giapponese” di Rintarō
Metropolis (“Metoroporisu”) è un film di animazione uscito nel 2001 per la regia di Rintarō (pseudonimo di Shigeyuki Hayashi), a cui si devono alcune produzioni di successo come la ottima serie di oav a sfondo fantastico-horror Megalopolis (Teito Monogatari, 4 ep., 1991-1992) e specialmente la direzione in precedenza della saga spaziale Capitan Harlock (Uchū kaizoku Kyaputen Hārokku, 42 ep., 1978-1979) da un manga di Leiji Matsumoto. In verità, abbiamo deciso di affrontare succintamente questo film, più che altro per quella giusta necessità di completezza, la quale deve essere immancabile in ogni analisi di impianto scientifico. Infatti, il Metropolis “giapponese” non lascia il segno, essendo una rivisitazione poco incisiva del capolavoro espressionista tedesco, mediata da un manga di Osamu Tezuka. Lodevole è senza dubbio l’aspetto prettamente estetico dell’anime; nondimeno, ciò non è affatto inusuale nei prodotti animati del Sol Levante, notoriamente di altissima qualità formale. L’opera di Rintarō aggiunge poco o nulla dal punto di vista sostanziale a supporto del ragionamento del nostro scritto. Pur tuttavia, ci è parso almeno dovuto “segnalarla” e dedicarle qualche riflessione.
La storia è ambientata in un mondo retrofuturistico, a tratti dal sapore steampunk, dove gli umani e i robot coesistono, ma per nulla in armonia: molti robot sono costretti a vivere nel sottosuolo della città, trattati come schiavi dagli umani e destinati a venire persino distrutti, qualora osino entrare in aree non autorizzate. Sta qui solamente una lieve ripresa del messaggio di protesta sociale che innerva il film tedesco, aggiornandolo alla sensibilità della nostra contemporaneità. Sarebbe a dire che, se per Lang era la deumanizzazione dell’individuo, causata dall’avvento sempre più prepotente della produzione industriale meccanizzata, l’elemento da stigmatizzare, nell’anime il fattore negativo è legato a una tematica di tipo “razziale”, gli umani che maltrattano i robot. Diciamo che la storia nella pellicola di Rintarō, a differenza del manga di Tezuka, prova comunque, in larga parte riuscendoci, a ricalcare quella del primo Metropolis, pur discostandosene in modo talora brusco in alcune sottotrame. Infatti, la città è divisa su vari livelli, e i personaggi che vi abitano rispecchiano i ruoli (Red in Fredersen, Rock in Freder, Laughton in Rotwang e Tima in Maria-robot) dell’omonimo film tedesco. In entrambe le pellicole si fa riferimento alla Torre di Babele: in quella originaria esiste un enorme grattacielo con il tetto a cupola poi rivisitato attraverso lo Ziqqurat dell’anime. Il modo in cui Tima si “sveglia” è identico a come si desta l’automa femminile protagonista del film di Lang: vale a dire, in primo piano e con gli occhi che si aprono lentamente. Le persone povere della Zona 1 che hanno perso il lavoro, a causa dell’utilizzo al loro posto dei robot, sono simili alla vessata classe operaia del film, vivendo nel livello sotterraneo della città in un costante degrado ambientale e sociale. Questa massa avvilita nel corpo e nello spirito viene fomentata alla ribellione, come nella pellicola “dal vero”, dall’automa femminile, e anche qui la rivolta ha esiti infausti.
In tutta franchezza, la scena finale dell’anime, che vede la distruzione dell’immenso Ziggurat, con in sottofondo la ben nota e nostalgica canzone I Can’t Stop Loving You (1957) – composta da Don Gibson e resa celebre dalla calda voce di Ray Charles – lascia quanto mai spiazzati, generando una forte distonia tra immagine visiva e colonna sonora. Riteniamo che non vi sia molto altro da aggiungere sull’opera di Rintarō, sennonché l’essere stata in sostanza una preziosa occasione mancata per riproporre sotto un’altra veste mediale la gemma filmica di Lang. Bello da vedere, certo, ma totalmente privo di contenuti, come pure di una elaborazione degli argomenti inseriti nella trama.
Conclusioni (l’unico architetto futurista il cui retaggio è arrivato fin nel lontano Sol Levante)
Scomparso poco più di cento anni fa, Antonio Sant’Elia ha segnato il pensiero di alcuni stili architettonici industriali, i quali sono stati successivamente riversati nella concezione urbanistica della moderna metropoli. La sua produzione venne influenzata dall’opera dell’austriaco Otto Wagner (1841-1918). Da tali premesse, Sant’Elia sviluppò uno stile personalissimo, fortemente legato al contesto storico in cui visse, approfondendo una ricerca formale nell’ambito dell’industrializzazione, tenendo conto dei nuovi materiali edilizi (cemento armato, vetro, armature in ferro, ecc.). La sua “città nuova” venne immaginata non per essere realizzata in un futuro remoto, tutt’altro: egli la concepì, basandosi su quelle che erano le effettive possibilità tecnologiche della società di allora.
La sua attrazione verso la città industrializzata e la sua critica al passatismo furono le ragioni che lo avvicinarono al Futurismo. Pur avendo una carriera breve, Sant’Elia è stato una delle figure di massimo rilievo nel mondo dell’architettura del xx secolo; l’unico architetto in perfetta sintonia con le linee guida dei futuristi. Ad esempio, proprio a lui è attribuita l’idea di posizionare gli ascensori all’esterno dell’edificio, togliendoli dalle anguste trombe delle scale, ed è innegabile che parliamo qui di uno stilema assolutamente ricorrente nella rappresentazione degli edifici nella sci-fi al cinema, come anche nei fumetti.
La sua idea di una città dinamica e verticale pose le basi di quella che sarà poi l’architettura delle grandi metropoli, con grattaceli in cemento e vetro, dalle linee sinuose e ondulate. Per Sant’Elia, l’architettura doveva farsi promotrice di un vigore, per mezzo di forme imponenti, capace però di dare movimento e spinta alle costruzioni, e non per funzionalità, bensì al fine di infondere una dimensione concettuale al contesto cittadino.
«[…] lo spazio urbano negativo è un qualcosa che deve essere scalato, un ostacolo da oltrepassare, in modo da sopravvivere». Terminiamo il nostro saggio dedicato ad Antonio Sant’Elia con queste parole di Riffel, poiché esse racchiudono, se lette in prospettiva diacronica, il senso della tesi che sta alla base del ragionamento che si è qui portato avanti. Nel Manifesto dell’architettura futurista, Sant’Elia espresse utopie che hanno cambiato il modo di immaginare gli edifici e la città in generale, proponendo una versione totalmente nuova di apparato urbano, con i suoi straordinari percorsi separati su viabilità sospese e sovrapposte, che si insinuano tra le pareti di edifici giganteschi. “Forme edili” rese graficamente come poderose e belle, alla insegna di un culto del progresso di matrice ottimistica.
Pur tuttavia, la sua era una città deumanizzata, ove non figuravano gli abitanti. Allora, la operazione che venne fatta nel film di Lang, mostrando in chiave palesemente negativa una megalopoli feroce e in cui l’individuo diviene schiavo della meccanica, è stata pertanto la più che naturale interpretazione della urbanistica di Sant’Elia, che nasce utopica al punto di bastare a se stessa. Ecco che la città del futuro, da ideale, muta in distopica, cristallizzandosi nell’immaginario della science fiction. Quello che poi fece Ōtomo non è stato altro che ambientare la sua storia in un potente cliché visivo, consolidatosi nel tempo grazie a Metropolis, quasi sicuramente non sapendo di stare ripercorrendo le visioni dell’italiano Antonio Sant’Elia.
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