«Mattina, / il vento soffiava, sventolava e tendeva / le bandiere della zona, c’era / ghiaccio sotto le betulle bianche. // Allora passa qualcuno vestito di nero, / cammina con passo pesante, / come se dovesse andare molto lontano. / La strada vuota sale spontanea / per un pendio dove egli si avvia. // Certo che lo conoscevo, potevo raccontare / di lui / e di tutte le strade che ha percorso. […] // arriva un piccolo tram sulle rotaie. / Si ferma un po’ qui e poi scompare, / senza che nessuno scenda.»
Tutta la magia di questa poesia di Lars Gustafsson (1936 – 2016), intitolata Una mattina in Svezia e tratta dall’omonima raccolta del 1963, sta in quella vaghezza, in quel senso di mistero, in quell’apertura all’altro da sé che ogni poesia autentica deve avere. Chi è quest’uomo vestito di nero? Chi è quell’apparizione che rompe per un po’ la desolazione invernale? Siamo forse noi stessi che ci specchiamo nel cammino della vita? E quel tram sulle rotaie da cui non scende nessuno allude forse a qualche disincanto? Forse il poeta ci invita a fare una riflessione sul cammino percorso? A fare un bilancio della nostra vita?
Romanziere, saggista e poeta svedese, noto in Italia per alcuni fortunati romanzi pubblicati da Iperborea come Morte di un apicultore e Il pomeriggio di un piastrellista, «Gustafsson è poeta grande nell’evocare, con incanto duro e inquietante, una realtà e una natura come se non fossero viste dallo sguardo dell’uomo, che le avvolge di senso e di calore, ma fossero situate in una nudità assoluta. Alberi nel vento, neve in cui la vita umana assente è solo un’orma blu che scolora; anche se c’è un occhio che guarda le cose» (Claudio Magris).
Il bosco, il paesaggio nordico, è un elemento sempre presente nei suoi testi poetici. In un’intervista a cura di Alessandra Iadicicco apparsa su La lettura del 25 ottobre 2015 lo scrittore affermava: «In Svezia, a dispetto delle devastazioni più recenti del patrimonio naturale, le regioni selvagge sono ampie. E la fuga nel silenzio del bosco è un tema chiave di tutta la nostra tradizione poetica».
Un’immagine fiabesca
La sua poesia giocata tra sogno, memoria archetipica e immaginazione assume valore poetico quando si spoglia dei concetti filosofici e dei teoremi matematici o logici cui a volte indulge, per farsi immagine e racconto. E ciò accade soprattutto quando la sua vocazione si traduce in versi, «dove si raccontano, o meglio si accennano, storie di cui l’autore invita il lettore a immaginare un inizio e una fine, costruendone il senso» (Maria Cristina Lombardi).
È il caso, ad esempio, di Immagine fiabesca, una poesia di soli otto versi tratta dalla raccolta del 1962 Viaggiatore in mongolfiera: «Quel giorno blu d’autunno sbrigliato, / l’aria un nuovo mare di cristallo, / e sul suo fondo i boschi e i campi, / appena mossi dal vento e inondati di luce. / Ma nel bosco di querce dov’era l’ombra / e le foglie cadevano come monete che nessuno osa toccare, / allora apparvero a briglia sciolta tre cavalieri. // Della loro meta nulla possiamo dirvi». Qui una storia misteriosa è appena abbozzata. «In realtà si tratta di uno scatto fotografico su una scena con tre cavalieri (numero magico), nel bosco (per eccellenza luogo d’incontro con il soprannaturale), che cavalcano verso una meta di cui nulla è dato sapere. Si è chiamati a immaginare la trama, a pensare alla possibile destinazione del viaggio» (Maria Cristina Lombardi).
Il tormento del poeta
Gustafsson sembra volerci dire, al pari di Pirandello, che non si può comprendere la personalità umana fino in fondo, che sfuggono motivazioni e scopo dell’esistenza, che l’io è un frammento di un mistero più grande. Ma come avvertiva il filosofo spagnolo Miguel de Unamuno nel suo capolavoro Del sentimento tragico della vita: «la filosofia risponde alla necessità di formarsi una concezione unitaria e totale del mondo e della vita e, come conseguenza di questa concezione un sentimento che genera un’attitudine intima e perfino un’azione. Ma risulta che questo sentimento, invece di essere conseguenza di quella concezione, è causa di essa. La nostra filosofia, cioè il nostro modo di comprendere o non comprendere il mondo e la vita, deriva dal nostro sentimento rispetto alla vita stessa.»
Quel che veramente conta per il poeta (e per l’artista in generale) è far aderire il sentimento all’immagine (o al suono per il musicista, ecc.); è dare forma alle proprie emozioni. E nel fare questo è tutto il suo tormento.
Sandro Marano