I rapporti Stato-Mafia hanno tenuto banco per molto tempo sulle pagine dei giornali e hanno alimentato dibattiti politici. Tema molto rilevante per comprendere le articolazioni “ufficiose” del sistema politico italiano della prima e della seconda repubblica. La sentenza della Corte d’Assise di Palermo del 10 Aprile 2018, depositata il 19 luglio del 2018 (giorno del ventiseiesimo anniversario dell’attentato di via D’Amelio, dove persero la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta) mise in luce, in 5mila pagine e dopo 228 udienze e 1.250 ore di dibattimento, che nei primi anni Novanta la trattativa Stato-Mafia ci fu. Una sentenza che fece clamore ma che dopo solo qualche settimana, stranamente, finì nel dimenticatoio e nessuno più ne parlò.
Un passaggio della sentenza afferma che “Mentre i giudici saltavano in aria qualcuno nelle istituzioni aiutava i boss a ottenere i risultati chiesti da Riina”. Un processo che mise in evidenza come, nei primi anni Novanta, settori dello Stato e Mafia avevano trattato e raggiunto accordi. La posizione ufficiale del governo era improntata al massimo rigore nella lotta contro la celebre organizzazione criminale, sempre indicata dalle istituzioni come l’apice del male, il non plus ultra della minaccia alle istituzioni e alla Repubblica. Invece, in via “ufficiosa”, c’erano accordi, favori, contatti costanti, visto che, come asserisce la sentenza, “molti esponenti istituzionali (…) hanno intrattenuto rapporti con esponenti mafiosi, ora per interessi elettorali, ora per agevolare carriere ora per meri interessi economici personali o di gruppi ristretti”.
Un’anomalia? Una necessità? Avvenne “un vero e proprio cedimento dello Stato” è scritto nella sentenza, “iniziato dopo le stragi del 1992 (…) sarebbe divenuto inarrestabile per l’impossibilità di fronteggiare quell’escalation criminale, senza pari nella storia del Paese, in un momento di forte fragilità delle Istituzioni”.
“Un’escalation criminale senza pari nella storia del Paese”. Adesso un numero monografico della rivista “L’Uomo libero” (intitolato “Stato e Mafia. Andata e ritorno”), interamente scritto e curato dal direttore della rivista, Mario Consoli, e un libro, Il fascismo e la lotta contro la mafia, di Giuseppe Tricoli, affrontano il tema della Mafia e il secolare incontro-scontro con lo Stato italiano.
Mario Consoli effettua nel numero dell’Uomo libero (rivista che esce ininterrottamente da quaranta anni), una analisi sui rapporti fra Stato e Mafia fin dall’Unità d’Italia. Dopo una introduzione sulla trattativa degli inizi degli anni Novanta, sottolinea come in epoca giolittiana fosse spesso la Mafia ad avere la meglio sullo Stato italiano attraverso il controllo del territorio, del sistema sociale, della politica locale, al punto da inviare in parlamento propri esponenti per curare gli interessi dell’ “onorata società”. Con l’ausilio di statistiche, tabelle, cifre, cognomi di politici e nomi di città e paesi siciliani, Consoli illustra il quadro complessivo della situazione. “Il Risorgimento quindi era passato in Sicilia – osserva – senza provocare nessuna sostanziale rivoluzione sociale o senza risolvere le antiche questioni economiche”.
Con l’avvento del Fascismo, le cose cambiano. Da un viaggio in Sicilia, nel 1924, Mussolini comprende bene che lo Stato non ha potere ma sono le camarille mafiose a dettare legge. Nomina Cesare Mori prefetto di Trapani con ampio mandato di cominciare da lì la lotta alla Mafia, concedendogli ampi poteri e sollecitandolo a segnalare difficoltà o la necessità di varare leggi speciali per la Sicilia.
Tricoli e Consoli descrivono le azioni di Mori, come il Fascismo combattè la mafia e anche il ricorso all’esercito, necessario per stanare da alcuni paesi i vertici del sodalizio criminale che vi si erano asserragliati. Una lotta senza esclusione di colpi che produsse buoni frutti. Soprattutto perché la percezione dello Stato da parte della gente di Sicilia era cambiata. Centinaia gli arresti e le condanne e la Mafia ben presto dovette emigrare in gran parte negli Usa e in Sud America. Il Fascismo colonizzò il latifondo e le condizioni dei lavoratori migliorarono, furono fondati borghi e paesi e alcune aree furono bonificate. Non ci fu solo la lotta alla Mafia ma anche una politica sociale che teneva conto dei ritardi che la Sicilia era costretta a scontare. Qui si ferma il racconto di Tricoli che riguarda solo la lotta del Fascismo contro la Mafia. Nel numero speciale dell’Uomo libero, Consoli prosegue e spiega come la Mafia rientrò in Sicilia estendendo il proprio potere in tutta la penisola. I vertici politici degli Stati Uniti, in vista dello sbarco in Sicilia, contattarono il capo di Cosa Nostra (così era chiamata la Mafia in Usa), Lucky Luciano, alias Salvatore Lucania, nato a Lercara Friddi (Palermo) e trasferitosi a New York con la famiglia, all’età di otto anni. Nel 1942 era incarcerato a Dannemora, piccola località ai confini con il Canada. Fu subito trasferito nel carcere di Great Mead, non distante da Albany, a pochi chilometri da New York.
Così, ci furono vari incontri fra Luciano e alti esponenti del Ministero e dell’esercito e l’accordo fu raggiunto fra Stato Usa e Mafia. A Luciano e ad altri boss mafiosi furono garantiti molti vantaggi: scarcerazioni, assoluzioni per alcuni processi, la sostituzione della detenzione con l’espulsione in Italia (data la doppia cittadinanza). La Mafia garantì l’appoggio all’esercito Usa nello sbarco in Sicilia. Come da accordi, i mafiosi “in sonno” che erano in Sicilia furono subito contattati e si organizzarono per aiutare e accogliere i militari Usa. Questa prima forma di collaborazionismo dei mafiosi con i G men fu la prima forma di resistenza in Italia contro il Fascismo e l’esercito tedesco schierati nell’isola, dimostra Consoli. Fra le clausole dell’accordo, le istituzioni in Sicilia sarebbero passate tutte nelle mani della Mafia. E infatti, da accaniti antifascisti quali erano i mafiosi (data la repressione subita dal regime fascista) ottennero tutti gli incarichi politici e amministrativi dell’isola: in quasi tutte le città e paesi i podestà furono sostituiti da mafiosi e molti “picciotti” si affiancarono all’esercito statunitense per combattere il Fascismo e agevolare l’avanzata dell’esercito Usa. Tutto questo mentre i soldati Usa si rendevano protagonisti di crimini di guerra contro la popolazione civile a Gela e in altre parti dell’isola dietro esplicito invito del generale Patton. Fatti che Consoli documenta bene.
Prosegue l’analisi affrontando l’importanza della Mafia nella politica del dopoguerra elencando i nomi dei politici vicini all’“onorata società” e anche la costante americanizzazione della Mafia. Il capitolo sulla Mafia negli anni Ottanta è di particolare interesse perché analizza il pool antimafia, il maxiprocesso e l’operato dei giudici Falcone e Borsellino. Poi sono illustrati i rapporti fra Mafia e Vaticano, l’operato dei banchieri Marcinkus e Calvi, con intrecci che la dicono lunga sullo Stato democratico e anche, su un versante molto più nobile, sul sacrificio di magistrati ed esponenti delle forze dell’Ordine. Importante questo denso e interessante fascicolo nel quale viene sintetizzata, in un excursus, la storia dei rapporti fra Mafia e politica e certe interpretazioni vengono rilette (con riferimenti documentali) e inquadrate in una visione più completa, più precisa.
Mario Consoli, “L’Uomo libero” n. 85 (Stato e Mafia. Andata e ritorno), Eul ed., pagg. 128, euro 12,00; info.uomolibero@libero.it
Giuseppe Tricoli, Il Fascismo e la lotta contro la Mafia, Edizioni Pagine, I libri del Borghese, pagg. 119, euro 15,00
pagine dinstoria rimosse o dimenticate o ignorate che tutti dovrebbero conoscere! Grazie, Manlio!
Bell’articolo, e bei contributi da leggere attentamente. Vorrei aggiungere che non solo gli statunitensi si servirono dei mafiosi come quinta colonna in Sicilia al momento dell’invasione dell’isola (di liberazione non si può tecnicamente parlare, visto che l’8 settembre sarebbe arrivato dopo), ma lo stesso Partito comunista espresse nei confronti della “onorata società” giudizi tutt’altro che critici. Sperando che mi venga perdonata la civetteria dell’autocitazione, non posso che riprendere quello che scrissi in un articolo sul “Giornale” negli anni Novanta, e che poi ripresi nel mio pamphlet Il Villaggio Tribale (LoGisma Ed. – Firenze 2001):
“Fino ai primi anni Settanta del secolo scorso, esponenti comunisti di primo piano continuarono a fornire una giustificazione ideologica alle collusioni tra Mafia e PCI, non solo come forma di collaborazione allo sbarco e all’insediamento degli anglo-americani, ma anche nei decenni precedenti. La giustificazione venne elaborata da un vecchio dirigente del PCI, storico marxista dell’agricoltura e militante antifascista, arrestato nel 1930 e condannato a quindici anni di detenzione dal Tribunale Speciale. Quell’Emilio Sereni che proprio durante la detenzione nelle carceri fasciste maturò la sua interpretazione della Mafia come fenomeno ‘progressivo’ e della sua repressione, ad opera del Regime e del prefetto Mori, come forma di sostegno non alla certezza del diritto ma ai privilegi dell’aristocrazia più retriva. La tesi venne pubblicamente sostenuta da Sereni nel corso di un convegno dal titolo ‘La Toscana nel regime fascista’, i cui atti furono pubblicati da Olschki, a Firenze, nel 1971. Nel suo intervento il vecchio dirigente del PCI scriveva testualmente: ‘è particolarmente significativa… la politica condotta dal fascismo, in Sicilia, sotto la guida del prefetto Mori, nella repressione della mafia: che rappresentava allora una forma di organizzazione e di lotta caratteristica di ceti di media e grossa borghesia agraria, mediatori di affitti e subaffitti di grandi latifondi contro l’aristocrazia latifondista. L’abigeato, il taglio delle piantagioni ed altri reati di violenza, fino all’omicidio incluso, venivano largamente impiegati per spuntare, dall’aristocrazia assenteista, canoni e condizioni migliori per l’affitto dei latifondi, che poi venivano subaffittati ai diretti coltivatori: e tra questi, più sovente, i capi mafiosi trovavano la loro base di massa. Ho avuto occasione, nella mia vita carceraria, di passare anche lunghi periodi tra quelle vittime della repressione antimafiosa del fascismo: e mi sono sempre in presenza di detenuti che offrivano, coi loro collettivi carcerari, un esempio di costume e di solidarietà identico a quello dei detenuti politici, piuttosto che a quello dei detenuti comuni.’”
Questo scriveva ancora nel 1971 uno stimato professore e deputato, cui oggi sono intitolate delle scuole. L’uso politico della lotta alla Mafia arrivò dopo, in funzione antidemocristiana prima, antiberlusconiana poi. Onore e rispetto per i comunisti caduti in difesa della legalità, ma non si può cancellare la storia.
p.s. dei quindici anni di reclusione inflittigli dal Tribunale Speciale, Sereni ne fece solo cinque, perché poi fu amnistiato. Stalin non aveva gli stessi riguardi per i comunisti italiani che mandava nei gulag…
Al solito una interpretazione storicamente, totalmente falsa ad opera dei comunisti nostrani, il peggio del peggio.