Nel 1938 John Steinbeck scrive il suo romanzo-capolavoro “Furore”. Parla di povera gente, braccianti, che non possiedono nulla, e quando arriva la nuvola di polvere a Sallisaw in Oklahoma distruggendo le piantagioni di cotone, questa povera gente è costretta a filare via per volontà delle Società che detengono i diritti su quei terreni. La povera gente ammassata su autocarri Ford, Plymouth, Dodge, Hudson… parte in cerca di lavoro verso l’Ovest, il West, e in particolare, la California. Comincia così non un’odissea (perché un’odissea si conclude con un, per quanto sofferto, lieto fine), ma un autentico inferno, da cui non si esce. E in questo inferno, i membri della famiglia Joad (la famiglia scelta in rappresentanza di tutta la “povera gente” di “Furore”) vengono via via falciati uno dopo l’altro da un Fato arcigno, crudele, punitivo al massimo. I Joad, e questa “povera gente”, hanno delle colpe da scontare, infatti, non sono i buoni. D’altronde, ogni personaggio che tira le cuoia, in un romanzo ben fatto, un romanzo vero, se tira le cuoia, le tira perché sta espiando una colpa, un errore, un peccato. Specialmente, poi, se questo romanzo vero e ben fatto è scritto per una pressoché sicura riduzione cinematografica hollywoodiana. Nel 1935 John Steinbeck fa la conoscenza di Pascal Covici e di Elizabeth Otis, i quali diventano i suoi agenti letterari e cinematografici. Fino a quel momento, benché già grande scrittore, Steinbeck non aveva fatto alcun successo né di pubblico né di critica. Guarda caso, proprio dall’incontro con Covici e la Otis, comincia la fortuna di Steinbeck. “Pian della Tortilla” diventa subito un film con Spencer Tracy. “Furore” un film di John Ford con Henry Fonda. Vince Oscar su Oscar. Per rafforzare l’idea che il cavallo sul quale sono montate le majors cinematografiche americane è vincente, “Furore” riceve anche il Pulitzer, nel 1940. Tutto è pronto per fare di “Furore” il veicolo di un potente messaggio a chi ha orecchie per intendere: in un sistema capitalistico, chi vive come uno sradicato fa una fine molto meschina. I Joad rappresentano gli indiani, i messicani, rappresentano anche gli ebrei. Chi vagabonda, chi vive come un nomade, chi non ha uno Stato alle spalle a proteggerlo, prima o poi, paga. In America, in Germania… ovunque. “Furore” ricevette anche il suo bel carico di critiche… Steinbeck rifiutava etichette politiche. Non si è mai espresso sui reali significati di “Furore”. Se n’è rimasto silenzioso. Anche Alessandro Baricco termina la sua straordinaria lettura di “Furore” messa in onda dalla Rai rilevando il silenzio di Steinbeck sulla sua opera capolavoro. Magari, Baricco qualcosa ha fiutato (il finale di “Furore” è un po’ troppo strano; ci sono un po’ di cose che non tornano del tutto e sappiamo: a) che Steinbeck è un maestro della narrativa; e b) che Steinbeck non è uso a “straniamenti”, le sue storie sono là, limpide) oppure l’autore di Oceanomare ha capito tutto, ma ha preferito tacere. Fatto sta che il silenzio di Steinbeck è stato possibile anche per una peculiarità, in fondo, propria del realismo. Il realismo mostra i fatti, senza commentarli. Cosa che genera, anche nel caso di “Furore” di Steinbeck, una sorta di ambiguità di significato. Un fatto nudo di per sé potrebbe voler dire una cosa e il suo contrario. Bisogna solo attendere in quale modo venga recepita. In un regime democratico, un atto di provocazione come quello di Steinbeck è stato digerito e trasformato. Ecco cosa è successo. Questo fa la democrazia: digerisce e trasforma. Si lancia il sasso nello stagno e si sta a vedere cosa accade. Se il popolo gradisce, bene. Se non gradisce, si retrocede. Non importa che il popolo capisca le sfumature: deve solo gradire o non gradire. Se Steinbeck avesse pubblicato lo stesso libro nella Germania nazista, il giorno dopo Hitler avrebbe probabilmente ordinato di utilizzare quei carri bestiame di cui parla quello Steinbeck in quel suo libro, sì, per metterci dentro, ebrei, zingari, e la gente povera, quella che non poteva permettersi di pagare per fuggire in Palestina o altrove. In democrazia, invece, il messaggio è stato masticato, digerito e risputato fuori del tutto edulcorato, addomesticato. Guarnito e glassato.
Nella Seconda guerra mondiale
Agire in conseguenza di ciò che vuole il pubblico, ciò che è più popolare potrebbe riguardare anche la politica. Ci sono alcune cose nella Seconda Guerra Mondiale che non quadrano del tutto. Dopo la crisi del ’29, in Germania le cose si misero talmente male che Hitler fu visto come la soluzione. Nel 1939 Hitler venne addirittura candidato al Premio Nobel per la Pace. Il 1 settembre del ’39 Hitler invase la Polonia dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale – e così non ricevette il Nobel. Churchill salutò inizialmente il fascismo e Mussolini con simpatia. A Yalta si riunirono Churchill, Roosvelt e Stalin. Il Nazismo fu sconfitto a Stalingrado da Stalin – il quale al termine di un incontro aveva definito Hitler un “brav’uomo”. Ci fu lo sbarco in Normandia, che fu una carneficina. E poi, le bombe su Hiroshima e Nagasaki, a causa dell’attacco a Pearl Harbour. Gli scienziati nazisti furono accolti in America e lì costruirono la bomba atomica… E gli americani cosa fecero? Anziché metterla al sicuro, la usarono. Cioè fecero quello che avrebbe fatto qualsiasi nazista di Hitler degno di questo nome. Insomma, non è tutto chiaro. Viene quasi da pensare che i governanti dell’epoca fossero, tutto sommato, un’accolita di criminali con idee molto chiare su ordine, disciplina, equilibrio.
Il consenso
Ma è il consenso del “popolo” a dettare legge.
Tornando a Steinbeck, Steinbeck si sentiva veramente una specie di biologo. Scrutava i suoi personaggi come animaletti sul vetrino di un microscopio. E il Biologo, in Vicolo Cannery, una figura ambigua, sinistra, forse fa riferimento al suo amico biologo, Ed Ricketts, che così grandemente influenzò Steinbeck, ma dopotutto potrebbe fare riferimento anche a Steinbeck stesso. Steinbeck non amava i personaggi delle sue storie, non era dalla loro parte. Ha scritto un’opera, “Furore”, più grande di lui, e che ha tradito significati che Steinbeck non voleva dare.
Solo che non tutti sono scemi o amano fare gli ipocriti fino a questo punto.
“Sulla Strada”
Passano vent’anni.
Esce “Sulla strada” di Jack Kerouac.
Kerouac è un simpatico signore, che dice di aver letto Jack London e di aver deciso di fare il vagabondo per il resto della vita.
In fondo, deve aver letto anche Salinger e “Il giovane Holden”, perché una radice di orientalismo, c’è anche nel “Giovane Holden”, questo ragazzo svogliato, e a suo modo curioso della vita, ma al contempo annoiato di tutto. Curioso di capire se una cosa o l’altra lo annoierà come al solito. Holden Cuafield non è poi così dissimile da Sal Paradiso. Per Alessandro Baricco Holden è uno che dà importanza sempre alle cose di terza se non quarta importanza. Un immaturo. E infatti il suo professore glielo fa notare a chiare lettere: “Un uomo immaturo muore per una causa. Un uomo maturo, invece, vive per essa”. Prima o poi, il giovane Holden maturerà. Ma forse c’è un altro significato per questo atteggiamento strafottente e blasé di Holden. Non è che Holden si concentri su dettagli che per chiunque altro sarebbero di secondaria importanza, no. Holden semplicemente non dà valore a tutti quegli orpelli e a quelle sovrastrutture che ornano le persone che gli stanno intorno. Lui decide che la cosa più importante del suo professore è il cappotto… Non la Laurea, la sua posizione, la cultura. Quello, vattelapesca. No, è il cappotto. Perché per il resto tutta questa gente che circola attorno a Holden non ha alcuna altra importanza. Loro si danno tanto tono, ma la cosa più rilevante che hanno, in fin dei conti, non va più in là dell’acconciatura dei capelli o… o del cappotto. Che è un modo come un altro per dire che tutte queste persone non presentano nulla di rilevante, benché tutti si credano chissà che. Il “catcher in the ray” è quel mestiere stravagante immaginato da Holden Caulfield, il quale consiste nell’acchiappare i bambini, i ragazzini prima che cadono in uno strapiombo, mentre giocano spensieratamente. Lo strapiombo è proprio la maturità. L’età nella quale si comincia ad abbandonare l’età della fanciullezza che permette di vedere le cose davvero importanti, a favore di atteggiamenti asserviti a valori che sono spesso orpello, artificio, sovrastruttura, convenzione del consorzio umano.
Dunque, Kerouac magari aveva in mente “Il giovane Holden” e mettiamoci anche Jack London. E forse “La capanna dello zio Tom”. Non aveva molto in mente Hemingway, anche se il buon Jack lo omaggia qua e là, facendone caricature squacquerone. Ringraziando il Cielo, non aveva in mente la Bibbia; anche perché la Bibbia di Kerouac per questo libro era un altro libro, un libro da cui Kerouac attinge a piene mani, un libro uscito vent’anni prima.
“Furore”
“Furore” di John Steinbeck.
Non solo i riferimenti in “Sulla strada” a “Furore” non si contano, ma sono fondamentali. Senza “Furore” “Sulla strada” non avrebbe avuto senso scriverlo. “Sulla strada” non avrebbe senso. Invece, “Furore” è la partitura, lo standard sul quale Jack Kerouac può suonare, a ritmo di conga e bongo, il suo be-pop.
Sì, non avrebbe senso, “Sulla strada”. Che senso ha un libro dove i protagonisti non fanno altro che partire verso la California e poi tornare a New York? Okay, Jack Kerouac era “affamato di vita”, e voleva scrivere un libro. Voleva vivere. E così ci racconta i suoi viaggi su e giù per l’America, e già che c’è ci mette dentro le donne che conosce che non esita a portarsi a letto, e poi ci fa conoscere il vero protagonista della faccenda, quell’autentico matto di Dean Moriarty, e poi Chad King e Carlo Marx… tutti nomi fittizi per indicare i suoi compagni della Beat Generation. D’accordo, tutto molto avventuroso… ma, in fondo, nemmeno tanto. E siamo contenti di apprendere che Dean Moriarty abbia tre mogli (Mary Lou, Camille e Inez) e quattro figli, e di sapere i lavori che ciascuno fa per sopravvivere, come fare la guardia o raccogliere patate… ma alla fine a noi cosa interessa di ‘sta roba? Sì, è bello sognare sprofondati nella lettura di “un mito di libertà senza tempo” come sta scritto sulla copertina dell’edizione “I Miti” Mondadori. Però, in fondo… stringi stringi, che importa?
Invece, c’è molto di più.
Jack Kerouac non sta scrivendo solo il resoconto di una parte della sua vita. Quella dopo il 1947, anno per lui spartiacque. No, sta facendo qualcosa di molto più sottile. Perché non siamo tutti scemi e Kerouac non era uno scemo e Kerouac sta vendicando la famiglia Joad di “Furore”, la sta facendo pagare a Steinbeck.
“Sulla strada” non significa “On the road”, “Sulla via”. “Sulla strada” significa “Col culo a terra”. Perché di questo parla “Sulla strada”: di vagabondi disperati e straccioni, finiti per strada, a girovagare per l’America, alla ricerca di lavoro e totalmente col culo a terra.
Ma a differenza di “Furore”, non sono la povera gente e i braccianti, gli apartheid e i diseredati. Sono colleghi della nostra beneamata gloria mondiale John Steinbeck. Artisti, scrittori.
Sono gli scrittori, questa volta, vent’anni più tardi dall’uscita di “Furore”, a nuotare nella mota. I biologi (o quelli che avendo fatto un corso di scrittura e vantando amicizie con scienziati) sono finiti sul vetrino sotto il microscopio. I biologi non sono migliori degli organismi che studiano. Gli scrittori non possono sostituirsi, non devono sostituirsi, a Dio, giudicando questo e quello. E poi, per cosa? Per un libro pubblicato? Perché il successo ha dato alla testa?
Ecco, la vendetta di Kerouac.
E di prove, nel libro, ce n’è eccome.
Sissignore.
Prima di cominciare, è necessario chiarire le regole che permettono questa interpretazione del libro di Jack Kerouac. Tale interpretazione (che ha il pregio non solo di offrire un viaggio gratis nei meandri della psiche dell’autore stesso dell’interpretazione, ma che trasforma un libro picaresco in una sorta – leggere per credere – di thriller al cardiopalma) è possibile prestando attenzione ad alcune ricorrenze presenti nel libro. Che cos’è una ricorrenza? Una ricorrenza è una parola che si incontra più volte all’interno di una storia. Ad esempio, se l’io narrante della storia non fa nulla per negare di chiamarsi Sal Paradiso, e se nel corso della storia incontro la parola “Sal” o “Paradiso” o “Sal Paradiso”, è molto probabile che l’io narrante sia effettivamente un signore di nome Sal Paradiso residente a New York City. Ricorrenze. Se dopo il Capitolo 1 incontro il Capitolo 2, è molto probabile che quello che sto leggendo sia il Capitolo 2 e non il Capitolo 16. Questo implica che il Capitolo 2 narrerà cose più vicine nel tempo rispetto al Capitolo 16 o quantomeno che le cose contenute nel Capitolo 2 mi serviranno per comprendere meglio le cose contenute nel Capitolo 16, anche se il Capitolo 16 dovesse ribaltare le cose del Capitolo 2, negare le cose del Capitolo 2, capovolgerle o abbatterle. Se dopo pagina 161 trovo pagina 162 e se decido di saltare cinque pagine e da pagina 162 passo a pagina 167, è molto probabile che pagina 162 sia pagina 162, pagina 167 sia pagina 167 e via discorrendo vattelapesca. Ricorrenze. Alcune sono ricorrenze evidenti: nomi dei personaggi, luoghi geografici… altre sono meno evidenti. Le meno evidenti, quando e se ci sono, sono lì per la stessa ragione per cui ci sono quelle più evidenti: vogliono significare qualcosa.
Capito? Capito bene?
Ottimo.
Allora, cominciamo.
Prima di tutto, lo schemino dei personaggi. Dean Moriarty corrisponde a Allen Ginsberg. Ecco, è interessante una cosa, per sintetizzare la funzione di Dean Moriarty all’interno del romanzo di Kerouac. Moriarty è il nome del grande nemico di Sherlock Holmes nei romanzi di Arthur C. Doyle. La cosa potrà apparire forzata, ma in un paio di occasioni Kerouac chiama degli sbirri Sherlock Holmes. Cosa che dimostra che Kerouac sapeva chi fosse Sherlock Holmes (anche perché Kerouac non abitava su Marte) ed è ipotizzabile che l’aver chiamato Moriarty Ginsberg suggerisca il rapporto di amicizia-rivalità che lega i due grandi intellettuali beat.
Andai con Dean alla stazione di polizia e cercammo di spiegare che non avevamo soldi. Ci dissero che Dean avrebbe dovuto passare la notte in prigione se non li avessimo racimolati. Naturalmente la zia li aveva, quindici dollari; ne aveva venti, quindi sarebbe andato tutto bene. E in effetti mentre discutevamo coi poliziotti uno di loro andò fuori a dare una sbirciata alla zia, seduta dietro in macchina e avvolta nella coperta. Lei lo vide. «Non si preoccupi, non sono la pupa dei gangster. Se vuole perquisire la macchina, faccia pure. Sto tornando a casa con mio nipote, e questi non sono mobili rubati, me li ha dati mia nipote che ha appena avuto un bambino e sta traslocando in una casa nuova.» Questa uscita lasciò di sasso il nostro Sherlock che tornò dentro la stazione. La zia dovette pagare la multa di Dean, altrimenti saremmo rimasti bloccati a Washington; io non avevo la patente. (p.67)
E a pagina 75:
Volevano sapere quanti anni aveva Marylou, stavano cercando di montare un caso di tratta delle bianche. Ma lei aveva il certificato di matrimonio. Poi mi presero da parte per chiedermi chi andava a letto con Marylou. «Suo marito» dissi io molto semplicemente. Erano curiosi. Qualcosa non quadrava. Tentarono un numero da Sherlock Holmes da strapazzo ripetendo due volte la stessa domanda nella speranza che cadessimo in contraddizione. Io dissi: «Quei due stanno tornando al lavoro nelle ferrovie in California, questa è la moglie di quello più piccolo, e io sono un amico in vacanza dal college per due settimane».
Il riferimento a Poe
E poi, Kerouac qua e là fa riferimento esplicito a Edgar Allan Poe. Nel romanzo “I sotterranei” Mardou, la ragazza mezza indiana-mezza nera di cui Jack si innamora perdutamente e che (spoiler!) alla fine del libro lo lascerà per la stessa ragione che inspira l’esistenza di Kerouac ossia desiderio di indipendenza, autonomia, libertà (per la serie: chi di spada ferisce, perirà di spada), questa ragazza, Mardou Fox, fa un gran parlare dei fantasmi degli indiani ammazzati dagli americani in tempi antichi, e anche in “Sulla strada” incontriamo questo paragrafo: “Credevo che tutti i luoghi selvaggi d’America fossero nel West finché il Fantasma di Susquehanna non mi ebbe dimostrato il contrario. [By the way, “Susquehanna” non assomiglia a “Soshanna”, l’eroina del film “Inglorious Basterds” di Quentin Tarantino? Sicuramente, Aldo “l’Apache” è un’esplicita identificazione “indiani d’America-ebrei” a cui potrebbe logicamente corrispondere “nazisti-primi-coloni americani”] No, c’è del selvaggio anche nell’Est; è lo stesso lungo il quale arrancava Ben Franklin nei giorni dei carri trainati dai buoi, quando faceva l’impiegato postale, lo stesso di quando George Washington era un intrepido combattente contro gli indiani, di quando Daniel Boone raccontava le sue storie accanto alle lampade nella Pennsylvania e prometteva di trovare il passaggio, di quando Bradford costruì la sua strada e gli uomini si diedero alla pazza gioia nelle capanne di tronchi. Per il piccolo uomo non esistevano i grandi spazi dell’Arizona, solo quelli selvaggi e cespugliosi della Pennsylvania orientale, del Maryland e della Virginia, le strade secondarie, le strade nere d’asfalto che serpeggiano tra i fiumi lugubri come il Susquehanna, il Monongahela, il vecchio Potomac e il Monocacy.”. Ma la prova schiacciante di un interesse da parte di Kerouac per le storie del sovrannaturale (Conan Doyle, Poe…) sta negli omaggi che vent’anni più tardi il Re della Suspence Stephen King farà proprio a Jack Kerouac: il locale jazz nel romanzo “I sotterranei” si chiama “Red Room” che richiama l’arcinoto “Redrum” di Shining; in “Sulla strada” c’è una “Castel Rock” in Colorado, che è anche teatro di un evento abbastanza rabbrividente riguardo la puntura di un insetto; e infine, la Plymouth guidata da Dean Moriarty e Sal Paradiso in “Sulla strada” viene definita una “macchina effeminata”: il che richiama il ben noto capolavoro kinghiano che ha come protagonista un’altra Plymouth Fury del 1958 “Christine – La macchina infernale”. Del resto, il primo King era un hippie, con la barba, e gli adesivi pacifisti appiccicati all’automobile: il primo King è un nipotino diretto di Jack Kerouac. E King e Kerouac sono entrambi nipoti di John Steinbeck. Anche King infatti omaggia largamente (com’è noto) Steinbeck. In alcuni libri sono omaggi espliciti; in altri, alcuni elementi vengono ricombinati: “Furore” e “It” hanno in comune “tartarughe”, “nubifragi”, “perdenti” e “gente che via via schiatta inesorabilmente”.
Dunque, i vagabondi di Kerouac sono gli apartheid di Steinbeck. E quali sono le caratteristiche di questi intellettuali vagabondi? Sono dediti al sesso. Si alcolizzano. Fanno lavori umili per tirare a campare. Viaggiano. La differenza tra i vagabondi di Kerouac e gli apartheid di Steinbeck è che ciò che i personaggi di Kerouac fanno non è una colpa: essi scelgono liberamente, in piena coscienza, questa vita da sradicati, da stracciaroli… anzi, la considerano vita vera. In più, altra differenza determinante, la più determinante, è che i personaggi di Kerouac sono ipercolti, e non degli analfabeti, sono artisti, scrittori: sono, insomma, Steinbeck catapultato improvvisamente dall’altra parte della barricata come in una puntata di “Ai confini della realtà” – magari, ideata e scritta da Stephen King.
Ma cosa ci consente di andare così a colpo sicuro, identificando i vagabondi di Kerouac con i poveri contadini di Steinbeck? Ci sono alcuni elementi che avvalorano questa ipotesi. Tanto per cominciare, il primo elemento è l’autocarro guidato da Dean Moriarty e Sal Paradiso per spostarsi lungo l’America. Un Hudson. Lo stesso marchio dell’automobile della famiglia Joad in “Furore”. Poi, come abbiamo anticipato, il marchio cambierà e si passerà a una Plymouth… ma è sempre un marchio presente in “Furore”. Più precisamente, Sal Paradiso compie il suo viaggio da costa a costa con almeno due vetture: una Ford Sedan del ‘37 e una Hudson del ‘49. E più precisamente ancora, Dean Moriarty guida la Hudson fino in California, e in Messico Sal e Dean sono a bordo della Ford Sedan del ‘37. E poi, una Cadillac. Una Cadillac, certo! Come mai questo cambio di automobile, in Messico? Perché fintanto che si rimane entro i confini della California, si sta seguendo lo standard di “Furore”, ma una volta in Messico si esce anche da “Furore” e… la musica cambia: Dean Moriarty non è più pazzo, vagabondo, barbone… diventa persino saggio. Lui, Moriarty, è il vero bersaglio di Jack Kerouac, per tutto il romanzo. Moriarty è il vero Joad di “Sulla strada-Furore”. Persino la celeberrima battuta: “Dove andiamo?” “Non lo so. Ma dobbiamo andare” è, in realtà, una battuta tolta di peso da uno dei membri della famiglia Joad in “Furore” di Steinbeck e messa in bocca da Kerouac a Moriarty. E’ Moriarty a pronunciarla, a parlare come uno degli straccioni di Steinbeck. Messico è libertà. Messico è dove, secondo le regole della narrazione di Jack Kerouac, pazzia diventa saggezza. Da Città del Messico Moriarty pronuncia le sue parole di vittoria su Sal Paradiso:
“Poi mi venne la febbre, deliravo, privo di conoscenza. Dissenteria. Guardai fuori dal vortice scuro della mia mente e capii che ero su un letto a duemilacinquecento metri sul livello del mare, sul tetto del mondo, capii che avevo vissuto una vita intera e molte altre nel povero guscio d’atomi della mia carne, ed ebbi ogni sogno possibile e immaginabile. E vidi Dean chino sul tavolo della cucina. Erano passate parecchie notti, e se ne stava già andando da Città del Messico. «Cosa fai, amico?» farfugliai. «Povero Sal, povero Sal, si è ammalato. Stan si prenderà cura di te. Ora sta’ a sentire, se ce la fai così ridotto: ho ottenuto il divorzio da Camille qui in Messico e stasera parto per New York, se la macchina tiene vado da Inez.» «Tutto da capo?» esclamai. «Tutto da capo, amico mio. Devo tornare alla mia vita. Vorrei restare con te ma non posso. Prega che riesca a tornare indietro.» Mi premetti con un gemito le mani sulla pancia sconvolta dai crampi. Quando tornai ad alzare gli occhi il nobile e coraggioso Dean era ritto vicino al suo vecchio baule scalcinato e mi guardava. Non ricordavo più chi fosse, e lui lo sapeva, ed era commosso, e mi tirò la coperta sulle spalle. «Sì, sì, sì, devo andare adesso. Vecchio Sal febbricitante, addio.» E se ne andò.”
Già, c’è una differenza di consapevolezza tra Sal Paradiso e Dean Moriarty. Paradiso vive come un vagabondo, ma è consapevole che, in fondo, tutto questo è male. Moriarty, invece, abbraccia questa vita in modo totale:
“Un giorno o l’altro io e te razzoleremo insieme in un vicolo al tramonto alla ricerca di qualcosa da mangiare nei bidoni della spazzatura.» «Vuoi dire che finiremo come due barboni?» «Perché no, amico mio? Certamente, se lo vogliamo eccetera. Non c’è niente di male a finire come barboni. Si passa un’intera vita a non interferire con i desideri degli altri, compresi i politici e i ricchi, senza scocciature, e si tira avanti e si fa come si vuole.» Ero d’accordo con lui. Stava raggiungendo le sue decisioni taoiste nel modo più semplice e diretto. «Qual è la tua strada, amico?… La strada del santo, la strada del pazzo, la strada dell’arcobaleno, la strada del pesce piccolo, una strada qualunque. È una strada che porta chiunque dovunque comunque. Chi dove come?» Annuimmo nella pioggia. «Merda, e devo pensare a mio figlio. Che non sarà un uomo se non saprà darsi da fare… bisogna fare come dice il dottore.”
Moriarty fa questa vita e ha figli. Folle assoluto.
Differenza di consapevolezza, dicevamo. Sal Paradiso, per riprendere una definizione data dal nipote Stephen King nel suo saggio “Danse Macabre”, è un agente dello status quo. E’ vero che inizia affermando di essere “affamato di vita” e che “i pazzi sono gli unici uomini veri”, ma alla fine di ogni parte del romanzo (il romanzo è suddiviso in cinque parti) termina sempre in lacrime e pentendosi della sua vita. Kerouac non la vorrebbe fare, quella vita. Vorrebbe la sicurezza dei valori borghesi, e ne “I sotterranei” ci prova con Mardou, solo che l’anima gemella di un tipo come Kerouac è per definizione un’anima non accoppiabile, non gemellabile, diversa da tutto e dunque anche da sé stessa.
Il secondo elemento che indica “Furore” come lo standard di Kerouac è il percorso che Moriarty e Paradiso fanno per arrivare in California. Sono le stesse città di “Furore”. In particolare, Tulare. “Alfred disse che la zia gli avrebbe dato tutti i soldi che voleva, su a Tulare. L’Okie ci indicò la strada per andare da suo fratello nella piana fuori città.” scrive Kerouac. Kerouac ci mette pure gli Okies, di “Furore”. I “maledetti Okies” di Furore. E questi non sono omaggi. Sono talmente ricorrenti che dopo un po’ che si leggono questi riferimenti diventano una sorta di elemento indispensabile alla narrazione, ciò che fa la differenza. Altre parole, addirittura, come “Hudson”, “autocarro”, Oklahoma” un codice, un giudizio. Dean Moriarty è “autocarro”. Dean Moriarty è “Hudson”. Dean Moriarty è “Oklahoma”. Laddove “autocarro”, “Hudson”, “Oklahoma” e simili sono usati in senso dispregiativo. Se ci si fa caso, ogni volta che nel corso della narrazione compare Dean Moriarty ecco comparire anche la parola “Hudson”, “autocarro” o “Oklahoma” – parole legate a “Furore” e agli aparthied di “Furore”.
“Una Hudson ultimo modello tutta inzaccherata si fermò davanti alla casa sulla strada polverosa. Non avevo idea di chi potesse essere. Un giovanotto stanco, muscoloso e stracciato in maglietta, con la barba lunga, gli occhi arrossati, venne sul portico e suonò il campanello. Aprii la porta e mi resi conto all’improvviso che si trattava di Dean”
Ah, amico, quella Hudson è un bolide!» «Dove l’hai presa?» «L’ho comprata con i miei risparmi. Ho lavorato alle ferrovie, quattrocento dollari al mese.»
“Quando Dean sentì questo offrì subito i suoi servizi con la Hudson”
“Era diventato padre di una bambina deliziosa, Amy Moriarty. Poi un giorno all’improvviso, mentre camminava per la strada, aveva perso la testa. Aveva visto una Hudson del ’49 in vendita ed era corso in banca a ritirare tutti i suoi risparmi.”
“La sua follia era sbocciata in uno strano fiore. Non me ne resi conto fino a quando io, lui, Marylou e Dunkel uscimmo per andare a fare un breve giro sulla Hudson, fino a quando ci trovammo per la prima volta soli e liberi di parlare di quello che volevamo.”
“Dean continuava a sporgersi per pulirlo con uno straccio quanto bastava per vedere la strada, sempre guidando a più di cento. «Ah, benedetto vetro!» C’era spazio abbondante per tutti e quattro, nel sedile anteriore della Hudson. Avevamo una coperta sulle ginocchia. La radio non funzionava. Era una macchina nuova di zecca, comprata appena cinque giorni prima, e già cominciava a non funzionare.”
“Salivamo a frotte nella Hudson e slittavamo per le strade innevate di New York da una festa all’altra. Io portai Lucille e sua sorella alla festa più grande. Quando mi vide con Dean e Marylou, Lucille si fece cupa, sentiva che mi trasmettevano una vena di follia.”
“Dean segnò il ritmo sul cruscotto fino a intaccarlo; io lo imitai. La povera Hudson – la dolce nave per la Cina – si stava prendendo la sua parte di botte.”
“Nel pomeriggio andammo a Graetna, io e Bull da soli. Prendemmo la sua vecchia Chevy. La Hudson di Dean era bassa ed elegante, la Chevy di Bull alta e rumorosa. Come nel 1910.”
“La sola cosa che si vedeva era la spia rossa sul cruscotto della Hudson. Marylou strillò terrorizzata.”
“La povera Hudson sussultava e tremava. All’improvviso fece un salto, uscì dal fango e slittò sulla strada. Marylou riprese il controllo appena in tempo e salimmo anche noi. Ecco fatto: c’erano voluti trenta minuti, eravamo inzaccherati e infelicissimi.”
“Volevamo solo la benzina per andare da Bakersfield a Frisco, tre dollari circa. Ora eravamo in cinque nella Hudson. «Buonasera, signora» disse l’uomo, toccandosi il cappello per omaggiare Marylou, e partimmo.”
“La fermata seguente era Tulare. Risalimmo rombando la vallata. Io ero sdraiato sul sedile posteriore, esausto, completamente andato, e a un certo punto del pomeriggio, mentre sonnecchiavo, la Hudson infangata oltrepassò di corsa le tende vicino a Sabinal dove avevo vissuto, amato e lavorato in un passato spettrale. Dean era chino sul volante, rigido, ci dava dentro.”
“La porta della cucina dava su un cortile erboso con i fili per stendere i panni. Dietro la cucina c’era un ripostiglio dove vidi le vecchie scarpe di Dean ancora incrostate di tre centimetri del fango di quella notte in cui la Hudson si era impantanata sul Brazos River nel Texas. Naturalmente la Hudson non c’era più; Dean non era riuscito a pagare le rate.”
“Marylou tirò fuori la sua crema di bellezza e ce la spalmò addosso per divertimento. Ogni tanto sorpassavamo un grosso autocarro”
“E partì chino sul volante, via da El Paso a tutta velocità. «Dovremo solo prender su qualche autostoppista. Sono sicuro che li troveremo. Op! op! Si parte! Attenti!» urlò a un automobilista, lo sorpassò di scatto, sterzò per evitare un autocarro e superò con un balzo i confini della città.”
Gli esempi non si contano. Non possono essere casuali. E, ripetiamolo, non possono essere solo omaggi. E’ la partitura di uno standard jazz. Ed è un contrappasso. Una vendetta. Per questo “Sulla strada” è stata pubblicato. Questo fa la differenza tra l’arte di Kerouac e quella degli autori precedenti e degli autori beat successivi.
Nell’introduzione a “I sotterranei” sia Fernanda Pivano che Henri Miller si pongono proprio questo interrogativo. Cos’è che poi ha di tanto speciale, “Sulla strada”? Quale novità contiene? Si è trattato solo di un libro fortunato e basta? In effetti, sia l’esauriente excursus della Pivano che i giudizi taglienti di Miller (“Dopo aver letto Kerouac è difficile tornare a scrittori come Dos Passos, Hemingway, Steinbeck… o anche… anche al sottoscritto”) gettano un’ombra sulla significatività di “Sulla strada”. Possiamo anche aggiungere che non è nemmeno un libro scritto in modo così superbo. Se si leggono in fila “Furore” e “Sulla strada” non solo ci si accorge di similarità innegabili, oggettive, ma ci si rende anche conto che Steinbeck è narratore assai migliore. Per rendere l’idea, è come leggere “Il grande boh” di Jovanotti o “Strade blu” di William Least Heat-Moon (dove sono belle le prime sei pagine; poi, “grande boh”) dopo aver letto “Ebano” di Kapuściński. No, “Sulla strada” è un libro importante, e non solo fortunato, per un’idea fondamentale che reca dentro sé: gli scrittori sono i vagabondi, gli artisti i pazzi, chi osa abbracciare una vita sregolata la cavia sul microscopio. Inseguire sogni di un mito di libertà senza tempo termina invariabilmente con un pianto e un calcio a un barattolo.