È un tema dibattuto quello dei social network e forse Netflix non è la fonte più autorevole per parlarcene. Eppure, da quando The Social Dilemma è uscito, il tema dell’identità virtuale delle persone è tornato alla ribalta e, come diceva Oscar Wilde, “nel bene o nel male purché se ne parli” o, in questo caso, purché si rifletta sullo strumento.
Perché questo sono i social e internet in forma più ampia, uno strumento; cosa che tutti, dagli spettatori ai relatori e, mi azzardo a dire, agli ideatori di Social Dilemma tendono invece a scordarsi. Quando il mezzo diventa fine? Quando il profilo Instagram “figo”, mi si passi il termine, diventa lo scopo stesso del profilo Instagram?
No, non sto parafrasando la celebre pubblicità di Campari, ma sto provando a porre quello che forse è il vero social dilemma dei nostri giorni.
Lezioncina banale
Quando non paghi per un bene o un servizio, ci viene a un certo punto detto da uno dei guru redenti della Silicon Valley che sfilano davanti alle telecamere, allora chi viene venduto sei tu, la tua attenzione, la tua presenza. Detta così è un’affermazione brutale, da homo homini lupus di hobbesiana memoria, ma attenzione: per esempio se un giornale fa articoli di qualità gratuiti e conquista la mia attenzione così sostentandosi, allora la frase assume altri toni. Certo, l’obiezione è che sono molto più i casi di clickbait (titoli cattura click e like) che non quelli di giornalismo virtuoso; ma siamo sicuri che il problema risieda nel metodo e non a monte? Vedo in The Social Dilemma un ennesimo modo di spostare l’attenzione dall’effetto alla causa, deresponsabilizzando l’individuo, ridicolizzandone la capacità critica. Disconnettiti, vai offline (possibilmente per sempre) ci sembrano dire, perché o divori o sei divorato.
Ne siamo sicuri, però? I libri ci hanno formato e costretto ad allenare la facoltà critica, la dialettica costretto a dirimere il grano dal loglio e la maieutica di Socrate partiva dal cattivo esempio dei sofisti per arrivare a insegnare una lezione differente, a cui doveva giungere l’allievo, da solo.
Perché non esercitare la critica?
Sì, sconnettersi dai social fa bene come fa bene smettere di fumare o bere troppo alcool. Fa bene quando i social diventano una dipendenza; quando, come l’adolescente protagonista delle scene serial di cui è intermezzato il documentario, preferisce una chat online ad un pranzo vis a vis con la ragazza che gli piace. I social sono un problema se, passatemi il lirismo à la Rilke, passiamo più tempo a contare i like che le stelle. Ma i social e i malanni di cui si fanno portatori non sono altro che lo specchio di una società che è già malata alle radici, come suggerisce l’interessante saggio Trick Mirror di Jia Tolentino, recentemente tradotto dai tipi di NR edizioni. Coraggio, guardiamoci in faccia e abbiamo il coraggio di dire che non è colpa di Facebook, Twitter o Snapchat: quelle sono fucine che alimentiamo noi, nel bene e nel male; dove pende l’ago della bilancia siamo noi a deciderlo. Sia che decidiamo o meno se sottostare agli algoritmi di programmi che se ne stanno a Cupertino, piuttosto che a Zhongguancun.
Il problema è che stiamo smettendo di porci domande e interrogarci; prendiamo le cose per assodate, ingurgitiamo acriticamente verità confezionate da altri per il nostro uso e consumo e poco cambia che sia Netflix o Amazon a servircele.
Rileggere Cristina Campo
C’è una morale che non so spiegare nel fatto che un tempo i profeti, i poeti, gli eroi si riconoscevano postumi; la grandezza come la luce delle stelle arrivava dopo a chi li osservava, a volte quando loro non c’erano più. Adesso ci arriva in diretta, fotografiamo l’istante già passato, quando siamo fortunati riusciamo a salvarlo nelle stories.
Scusate, si è divagato. The social dilemma è consigliato a chi pensava che lo scroll perenne di Facebook fosse una bella e innocua invenzione; a chi passa più tempo a controllare se qualcuno è online che a parlarci per davvero, andando oltre le apparenze quando ce l’ha davanti. Alla neonata categoria dei “boomer” che condividono notizie con titoli scritti tutti in maiuscolo e a chi ancora pensa che le pubblicità che Google ti propina siano per caso, ve mo’, proprio quello che di cui stavi parlando mezz’ora prima.
Per tutti gli altri l’invito è di vederlo ponendosi però la domanda su cosa si sta guardando e a pensare a quali domande porreste voi a questi guru pentiti se ce li aveste davanti. Ho la sensazione che le risposte saremo tutti in grado poi di darcele da soli, ricordandoci sempre che come diceva la divina Cristina Campo:
“chiedere a un uomo [..] di sottrarre senza riposo all’equivoco dell’immaginazione, alla pigrizia dell’abitudine, all’ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare la sua massima forma. È chiedergli qualcosa di molto prossimo alla santità in un tempo che sembra perseguire soltanto, con cieca furia e agghiacciante successo, il divorzio totale della mente umana dalla propria facoltà di attenzione.”