Ombre e nebbia hanno sovente scortato e avvolto “Ordine Nuovo”, sodalizio missino – ma anche extraparlamentare – in perenne contrapposizione dialettica con un “mondo moderno”, concettualmente avuto in eredità – non distintamente dagli antidoti ideologici – dal maestro riconosciuto Julius Evola.
Non prima di aver ricordato l’affratellante maestria che impreziosisce i versi della “Vandeana” (“Siamo del re ladri e cavalieri, nella notte noi andiamo…”), inno dell’organizzazione nata come centro studi nel 1953, per una comoda introduzione ad alcune brevi note su “Ordine Nuovo parla” di Sandro Forte (Mursia 2020), avanzerei proprio dal celebre sostenitore del “pensiero della Tradizione”.
Evola incognita della filosofia italiana e della “destra” europea e gran divulgatore di culture alternative, sia perché non propriamente occidentali, sia perché conosciute in tempi diversi dagli attuali. Dall’età d’oro degli alchimisti – gli scienziati del pressappoco, secondo una definizione proveniente dal campo positivista – al periodo dei primi tradizionalisti francesi e dal neoplatonismo al medioevo cristiano; nota e documentata è la vicinanza del filosofo alla Rivoluzione Conservatrice tedesca, movimento d’idee del XX secolo che respinge la progressiva democratizzazione del Continente Vecchio. Il tutto all’interno di una metafisica guénoniana – relativa alla dottrina indù dei cicli cosmici – che evidenzia una generale regressione in ordine a qualsiasi classe fenomenologica, dal potere ai costumi.
Le difficoltà in merito a certo evolismo sono oggi, al contrario di ieri, più di natura concettuale che storiografica. Accertati, grossomodo, gli attributi esistenziali sono le cosiddette essenze a rimanere ostaggio dei partigiani del settarismo e della poca intelligenza delle tifoserie imbandierate. La stagione di una seconda ondata di studi – ricca delle esegesi di Franco Volpi e Massimo Donà – sembra oramai appartenere a un’altra era, pur conservando un’indiscutibile autenticità. In questa direzione, il libro di Forte non aiuta, sia per taluni (emendabili) errori significanti di una non adeguata selezione delle fonti, sia per certa evidente avversione – in parte giustificata dal taglio giornalistico, qui e lì confidenziale – all’utilizzo, per così dire, del metodo socratico. Il tema rivalità Evola-Gentile, che peraltro occupò di sé generazioni di “camerati” viene trattato sbrigativamente, eppure ci fu, già negli stessi anni Cinquanta, un dibattito ampio e ragionevolmente informato sullo statuto ideoculturale del Msi e delle sue naturali filiazioni. Non dimentichiamo che le divisioni destra-sinistra interessano i campi dell’Attualismo con relative appendici empiriche nell’umanesimo del lavoro e nelle mozioni di apertura alle ideologie avverse. Tutto da riempiere di contenuti il campo della paideia.
Si parla poco de “Gli uomini e le rovine”, libro da capezzale della destra del dopoguerra ma, come dire, impoverito della sostanza relativa alla propria essenzialità costituente. Bene fa d’altra parte Forte, ma qui siano su altri piani valoriali, a soffermarsi sul caso del tentativo di affondamento della nave Cristoforo Colombo, episodio che tanto fece discutere, rivelatore tuttavia di una fabula che paga pegno a una lista di azioni palesemente temerarie. La storia della destra, è anche, purtroppo, storia di una somma di personalismi. Peccato, infine, non aver riportato ragioni e contenuti di una locuzione “Figli del Sole” che spingeva i propri nessi, come rivelò Primo Siena e come scrissi più volte, fino all’età alessandrina.
Sgombriamo il campo dalle incertezze. Generazioni di curiosi e studiosi hanno preso confidenza con autori sconosciuti o hanno accostato esegesi possibili grazie ai periodici mandati in stampa da On o a On accostabili per temi e prospettive. Drieu La Rochelle, Spengler, Kerouac e Colin Wilson sono stati sollevati a protagonisti di un’ideale rivolta sdegnante tanto i modelli americani quanto la ben più odiosa prassi bolscevica. Temi quali la crisi della società massificata, l’eccessivo sviluppo tecnologico, un progresso astrattamente infinito, un Terzo e Quarto stato per parte loro tiranneggianti e, grazie alle pagine evoliane, la cerca dell’uomo nuovo non più o non soltanto mussoliniano, hanno incrociato ideali referenti tra i campioni del canone dell’antropologia filosofica. On finisce per imporre una diversa grammatica fascista, internazionalizzando certe aspirazioni, anticipando il fenomeno della nascita della cultura di destra, datata anni Settanta, individuando una via alternativa – né destra né sinistra – per spronare certo attivismo.
On è un “ordine di combattenti e di credenti”, deciso ad andar via dal Msi perché la linea micheliniana non lascia spazio ad opposizioni interne dialoganti – a tutto campo – su contenuti e collocazioni strategiche; ordine “aristocratico” nel significato che poteva darsi di esso nel dopoguerra cioè, in primo luogo, di gruppo condividente una visione del mondo, che disdegna le forze politiche del tempo posizionandosi oltre il fascismo storico. Quella narrata da Forte è, inizialmente, la storia di un’avanguardia di contestatori, nominalmente rivoluzionaria, che lotta per affermare una linea culturale e politica sempre e solo alternativa – anticomunista e antidemocratica – ma anche la breve parabola di un “qualcosa” di profondamente diverso e nei fatti nuovo.
Singolari, a tal proposito, le posizioni assunte nei confronti di una politica internazionale le cui necessità ruotano attorno allo spauracchio di una guerra atomica e alla sovietizzazione del pianeta per il tramite di conquiste o successi locali, solo in apparenza minori. Le guerre cosiddette rivoluzionarie tendono a frantumare i confini delle nazioni sovrane e, bon gré mal gré, l’Italia guarda con interesse crescente alle altre parti del mondo: Asia, Africa e America. L’anticolonialismo della “destra”, tradizionalmente flesso sull’opposizione alle conquiste britanniche, amava proteggere la necessità degli spazi vitali di un’Europa amica o potenzialmente amica e nell’utopico rispetto delle popolazioni native. Un’opinione politica che affiancava, more solito, la valutazione circa la condotta di un’Europa buona e di una cattiva. Allo stesso tempo, la “destra” osservava con interesse tattico la politica estera del gigante sovietico o dei comunismi al plurale che già prima della morte di Stalin incrudeliva il pianeta, da Oriente a Occidente. Curioso ma non troppo che lo stesso Evola sostenesse di guardare a un comunismo ben organizzato come modello di condotta politica. Un’abbondanza di coordinate latamente informanti che porterà ad elaborazioni in serie, a mutamenti di ottiche e, come dice Forte, alla sovrapposizione di miti.
On non è solo palestra di studi o, appunto, “centro studi”, ma anche movimento nazional-rivoluzionario capace di leggere il presente secondando, ancora una volta, direttive di pregio. Conformemente alle teorizzazioni evoliane e egli esempi jüngeriani, On concepisce la guerra come un fenomeno complesso che pesca dal presente algerino, si arricchisce di esperienze teoretiche e vorrebbe utilizzare piani di supremazia in stretta relazione al contesto internazionale. Una complessa raccolta di ipotesi sul futuro che si muove tra il doveroso omaggio alla coraggiosa incoscienza dei combattenti, la cruda realpolitik e la produzione di documenti sulle attitudini del comunismo e sulle sue capacità di penetrazione. Una guerra totalizzante contro un nemico crudele, calcolatore, mimetizzato anche al di qua di naturali confini geografici.
Secondo una narrazione che va per la maggiore, le stesse ragioni di esistenza di On deriverebbero dalle dinamiche della guerra fredda, grossomodo fino alla metà dei Settanta. La parentesi tristemente nota come strategia della tensione coinciderebbe con la militanza di un discreto numero di soldati-politici – in veste di nuove SS – intruppati all’interno dell’organizzazione fondata da Pino Rauti. Una guerra rivoluzionaria vera e propria gestita palesemente o occultamente dalla Nato (peraltro, molti dei militanti non sarebbero stati a conoscenza degli autentici fini, nonché dell’esistenza di un policentrismo deliberativo), guerra che sul modello cinese, “arruolando” civili, avrebbe dovuto demolire i confini morali delle guerre cosiddette comuni.
E in effetti, la questione atlantista è sempre stata il tallone d’Achille della destra, anche perché certa vicinanza, in ordine ai desideri, tra destra politica e forze armate è facilmente documentabile. Per l’influenza americana sulle origini del Msi rinvio ai lavori di Giuseppe Parlato e al mio contributo sulla nascita del Msi (“Il ballo di S. Stefano” con introduzione di Giorgio Galli), e non nego affatto il successo delle opere del noto Vincenzo Vinciguerra. Invece, per quanto riguarda il rifiuto di ogni cittadinanza politica (con ovvie conseguenze), rinvio a quel gran libro che è “Cavalcare la tigre” scritto per un “tipo particolare di uomo” che all’“esterno” non può trovare alcun aiuto, poiché “ordinamenti” e “istituzioni” di una civiltà normale sono “inesistenti”. Che fare, allora? Nulla per gli “altri”, tutto per se stessi – dice Evola – ché sembra completamente inutile proporre “linee di azione” che risulterebbero “in una civiltà anormale”, del tutto inadeguate.
Ma c’è di più: in Evola, come documentai in un paio di miei libri, certo riconosciutissimo prassismo, altro non fa se non rendere illogico l’impegno nell’analisi trascendentale o sarebbe meglio dire nel dominio teoretico. Il punto di partenza della quasi perfetta somiglianza delle forme moderne di Terzo e Quarto stato, con un Terzo stato in funzione di “mente” ed un Quarto di sostanziale “attore” (ciò appunto per la metafisica della decadenza cui si accennava), finisce per urtare certo allarmistico anticomunismo tutt’altro che raro negli ambienti di destra. Secondo quest’ultimo, per contrastare un bolscevismo già fedele interprete delle rovine, sarebbe necessario un “accordo” con quella stessa modernità che lo ha generato e che anzi dà ancora la misura della forza del male. È la ri-proposizione di quell’alleanza che il Msi ha digerito in fretta e che, mutatis mutandis, tende a riprodurre l’atteggiarsi del filosofo nei confronti di un fascismo e di un nazionalsocialismo “plebeisti”.
La politica, dunque, finisce per acquisire un’autonomia nel sistema classificatorio evoliano al quale però, come in ogni metafisica, nulla dovrebbe sfuggire; di più: all’interno di una scelta, obiettivamente sofferta, si fa chiara la distinzione tra America realtà agente e americanismo contrassegno di degradazione. Un cartesianismo in sedicesimo che allontana il soggettivo dall’oggettivo, spezzando, di fatto, la linea interpretativa in due sotto-elementi, qui, dalle articolate relazioni. A questa distinzione andrebbe aggiunta la tendenza a diversificare, soprattutto nei Sessanta, Europa e Occidente. Il concetto di fine dell’Europa è tipico degli anni della Grande Guerra, quello di civiltà occidentale gli è coevo. Il bipolarismo, la ideologizzazione delle controversie, le prime guerre rivoluzionarie, rafforzano i concetti – non nuovi – di Oriente e Occidente, del secondo naturalmente è parte anche l’America. Secondo Francesco Rovella, Rauti, seppur quasi ignorato, in nome di un palese occidentalismo non disprezzerebbe i flirt con l’America (non si rilevano tuttavia eccessi di americanismo nelle sue preferenze culturali), il Mpon – cioè l’ala di On che si stringerà attorno a Lello Graziani – nasce invece europeista e antiamericano.
Nelle sue grandi linee la storia di On è comunque nota e nei particolari, all’interno del volume, essa viene narrata dagli ex militanti. Il 1969 è l’anno dello shock, che non è l’attentato di piazza Fontana ma il ritorno dell’ala rautiana, dopo tredici anni, all’interno del Msi con la consequenziale nascita del “Movimento Politico Ordine Nuovo”. Nel giro di pochi anni – secondo la stessa versione ordinovista – l’apparire sempre più numeroso, nelle piazze, delle fazioni più politicizzate – fazioni fortemente contestatarie – e una rapida riorganizzazione missina, costringono la “reazione”, in base a convenienze di natura politica, ad adottare la strategia della repressione. L’impegno d’altra parte diventa sempre più pesante e trasforma quei “cavalieri dell’idea”, guidati da Graziani, in rigidissimi militanti.
Due o tre verità si confrontano. Un po’ troppe. Da un lato (soprattutto da sinistra), il resoconto sulla strategia della tensione vede schierati, dalla stessa parte, forze “fasciste” e unità militari obbedienti a una regia esterna (americana), in direzione di un modello autoritario e per finalità controrivoluzionarie. In questo caso, la sigla On sarebbe né e più e né meno che sinonimo di strategia criminale astrattamente fascista. Dall’altro invece, si valutano le forze ordinoviste e generalmente di destra come genuine interpreti di un cambiamento diffuso – la rivolta di Reggio Calabria ne è un chiaro esempio – al quale le estensioni neurali delle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, cioè Dc e Pci, guardano con estrema preoccupazione. Tanto da organizzare una risoluta caccia al fascista. Quest’ultima versione, tra l’altro, sarebbe sopravvissuta fino ai giorni nostri: certo immortale “fascismo” (con tutte le negatività che esso è andato raccogliendo in quasi cinquant’anni), sarebbe alla base delle più comuni scelte conservatrici. Tra le due verità se ne collocherebbe una terza, quella relativa cioè alla percorribilità di una teoria degli opposti estremismi ad esclusivo vantaggio delle più tenaci forze di governo.
In effetti, nei Settanta, arresti, accuse di riorganizzazione del disciolto partito fascista, processi e il provvedimento di scioglimento fortemente voluto dal ministro Taviani, trasformano il Mpon in una realtà clandestina. Il movimento si polverizza ed è costretto a sospendere le attività politiche. Quelle culturali, nel segno di un innesto tradizionale in un “reame” di civilizzazione assoluta, verranno riprese poco per volta e nell’ottica dell’ormai diffuso pensiero antimondialista. Materia e forma si daranno la mano nell’ottica di una visionarietà jüngeriana di fascino “ribellistico” – la ben nota via del bosco – e pregnanza dottrinale. Le pagine di Evola, Nietzsche e Guénon renderanno familiare il senso della opposizione a un razionalismo nella sua ovvia traduzione fenomenologica; le significanze evoliane e jüngeriane animeranno il lungo momento di un’attesa, nella quale lasciar prevalere il dato culturale, fino all’avvento di un’era non più dominata da tecnica ed economia. Sono queste le “verità” filosofiche e le eredità concettuali di On.
Nondimeno, la comparsa di altre sigle – alcune di dubbia paternità – o la discesa in campo di nuovi elementi, trasformano la battaglia dell’estrema destra in una guerra nella quale, via via, le azioni supereranno di gran lunga le parole. Siamo a metà degli anni Settanta, al lettore non risulterà difficile inquadrare la narrazione dei resti del Mpon – il necessario ricambio generazionale sarà decisivo; in verità le responsabilità oennine per le stragi dubbie – nei capitoli più drammatici della parentesi storico-esistenziale qualificata come “notte della Repubblica”.
Alle ragioni del futuro leader missino nel biennio 1990-91, che si accorda con Almirante tornato in sella dopo la morte di Michelini, si opporrà dunque l’esasperato idealismo di Graziani e dei suoi soldati politici.
L’illustrazione delle insidie nel circuito ad ostacoli disposto per il romano e il catanzarese è la più agevole chiave di lettura del libro di Forte. Che, naturalmente, intende dare diritto di parola agli ex ordinovisti. Le preoccupazioni di Rauti sembrano di natura pratica, relative cioè a una eccessiva debolezza oennina, non solo di carattere economico. Debolezza di per sé invalidante, anzi prodromica di una probabile scomparsa del sodalizio. Ed è ciò che, di fatto, accade. Graziani invece, si ostina a non ritenere vantaggiosa, ai fini del pronosticato abbattimento del sistema, la convivenza dell’organizzazione con una formazione parlamentare che finirebbe per “suggerire” tempi e metodi validi erga omnes. Ovviamente, pone in primo piano la soggettività rivoluzionaria di On.
Tutto chiaro. Le anime pragmatista e idealista (o utopica) del sodalizio rivolgono le attenzioni a un reale percepito in modo differente. Da un lato, si sceglie strumentalmente di tornare “alla casa del padre”, cioè dentro il Msi che rimane il punto di riferimento della “destra”, e che peraltro è fonte primaria delle iniziative fin dagli anni Quaranta, dall’altra fa premio la strategia di destrutturazione di un sistema le cui misere alternanze borghesia-proletariato lasciano fuori un’“aristocrazia del pensiero” indicante il traguardo di un’etica libera dai condizionamenti. In un mondo catturato dal bipolarismo, si continua a cercare, almeno nello stadio delle proposte, una trasparente terza via. Una cerca che nel tempo si trasformerà in sfida aperta con complementi aggressivi.
Nella sostanza, i temi sono identici – la tangibilità del rifiuto della partitocrazia, il recupero dei valori tradizionali (scevri da certa usata iconologia) e la conquista di una sinistra giovanile insoddisfatta –, riassumibili però nel gioco di una difficile relazione tra parlamentarismo ed extraparlamentarismo. Perfino la seduzione di certo sbrigativo sovversivismo lambisce ambedue le sponde. Saltano agli occhi tuttavia, per parte dei militanti del Mpon, la misurazione della distanza fisica da un partito, esso stesso “sistema”, percepito come formazione borghese, e la posa “anarchica” (che rimpalla il tipico imbarazzo meridionale nel sentirsi italiani) ad un tempo ordinata nelle relazioni interne e disordinatamente provocatrice in quelle esterne. Le due cose, se ci si riflette, stanno comodamente l’una vicina all’altra.
Rimane, quale ulteriore elemento di riflessione, soprattutto dopo le prime condanne, il sensibile “arretramento” – così lo descrive Forte – dell’ala rautiana di On. Più che nella cosa in sé, nel nome della “cosa”. Una sigla divenuta improvvisamente pesante, verrà rimpiazzata da una più adeguata indicazione: semplicemente, “corrente rautiana”. A tirare le somme sarà, tuttavia, un intero movimento giovanile, che affacciandosi dannunzianamente “alla vita” saprà cogliere di questa le complesse, ovvie, validanti, profondità.
Interessante lettura
Recensione interessante. Confesso che da giovane non avevo alcuna simpatia per ON, riconoscendomi nella linea di Almirante, cioè MSI-DN, senza astorici velleitarismi, senza simpatie per i colonnelli greci, senza coltivare ambigue memorie per il nazismo… Il che non faceva e non fa tuttora di me un “atlantista sfegatato”, ma un realista…
Riflessione. ‘Le pagine di Evola, Nietzsche e Guénon renderanno familiare il senso della opposizione a un razionalismo nella sua ovvia traduzione fenomenologica; le significanze evoliane e jüngeriane animeranno il lungo momento di un’attesa, nella quale lasciar prevalere il dato culturale, fino all’avvento di un’era non più dominata da tecnica ed economia. Sono queste le “verità” filosofiche e le eredità concettuali di On’. D’accordo sulle convinzioni altrui, tutto il diritto ad esternarle, ieri come oggi ancora, ma la storia ci dice qualcosa di diverso. La tecnica ha sempre dominato, anche ai tempi delle legioni di Cesare che conquistavano grazie ad un apparato di macchine, navi, armi, tecniche militari superiori. L’economia: ma se tutta la storia dell’umanità è sempre consistita nella ricerca d’impadronirsi di qualcosa che non si aveva, o di cui si difettava? Dai predoni vichinghi, ai pirati barbareschi, ai conquistadores iberici ecc. Non c’è imperialismo ideale (neppure le Crociate), ma imperialismo economico con corredo di ‘ragioni ideali’, atte a convincere, per la propaganda e per la sottomissione dei conquistati… Anche noi nel 1936 attaccammo l’Abissinia in nome della lotta alla schiavitù e della civiltà, ma sappiamo che – sia pure in base ad un calcolo errato – pensavamo di trarne risorse economiche…
Anche le terme romane e gli anfiteatri e le strade consolari non sarebbero esistiti senza la tecnica….