I “partiti liquidi” ci salveranno dalla crisi? Oppure consegneranno definitivamente il potere politico ai mercati? Sono queste le domande frequenti a cui gli analisti politici tentano di dare delle risposte. L’exploit del movimento di Beppe Grillo e la rinascita di Forza Italia, annunciata da Berlusconi, sembrano riproporre lo spirito del ’93-’94 quando in Italia si affermò il mito del superamento dei vecchi partiti attraverso il protagonismo “società civile” (termine più che mai abusato).
Su questo punto si basa l’ultimo libro (“Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica”, Donzelli Editore) dello storico Salvatore Lupo. Nel ripercorrere gli ultimi settanta anni di storia italiana, Lupo rileva come le pulsioni antipartitiche siano state sempre presenti nel Paese per poi esplodere con impeto nel 1993. La tesi dello storico palermitano è basata sull’idea che i neopartiti, nati dopo il crollo della Prima repubblica sull’onda della retorica del “cambiamento” e della “lotta contro la casta”, abbiano alla fine riprodotto gli stessi difetti, o forse peggiori, dei vecchi partiti di massa.
Tra gli effetti nefasti della Seconda repubblica vi è proprio la destrutturazione dei partiti. Con l’ascesa di Berlusconi l’intero sistema politico italiano si è illuso che la soluzione del mancato funzionamento del sistema democratico fosse lo smantellamento dei partiti. Senza alcuna ponderata riflessione si è buttato via il bambino con l’acqua sporca. Eppure le ruberie dei e nei partiti non sono affatto cessate. Vicende assai diffuse come quella di Fiorito dimostrano come il livello morale sia forse peggiore di quello visto ai tempi di Tangentopoli. Neanche l’immobilismo politico della Prima repubblica è stato superato a causa della mancata riforma costituzionale.
A fronte di tutto questo si è persa l’idea del partito come strumento di collegamento tra istituzioni e società civile. Tale collegamento serve per comporre conflitti, trovare sintesi, pensare a politiche che proiettino l’Italia nel futuro. Per fare questo serve una classe politica preparata. E qui sta il disastro dei “partiti liquidi”. Non si può pensare di creare classe dirigente attraverso i casting berlusconiani (l’imprenditore, l’attore, il calciatore che non hanno idea di cosa sia la Politica aristotelicamente intesa) o le finte primarie online di Grillo e Casaleggio. Si è quasi completamente eclissato il principio che i partiti nascono per rappresentare idee, programmi e più in generale cultura politica che, necessariamente, deve essere personificata da individui preparati e non improvvisati.
Unico partito ancora capace di resistere ad alcune di queste derive è il Partito Democratico il quale, però, ha riprodotto al suo interno le degenerazioni della vecchia partitocrazia fatta di odiosi apparati e guerre tra correnti (sempre meno di pensiero bensì di biechi interessi). Il livello di contagio, nel sistema politico italiano, dell’idea berlusconiana del “partito padronale e liquido” si può facilmente individuare nelle schede elettorali, degli ultimi anni, piene di simboli recanti i nomi dei leader di partito (di ogni area politica).
La nascita dei “partiti padronali e liquidi” senza classe dirigente selezionata con metodi quantomeno chiari, senza militanti e iscritti, senza luoghi fisici dove incontrarsi e senza più collegamenti con sindacati e forme diverse di associazionismo è anche frutto di quella “mutazione individualista” studiata dalla storico Giovanni Gozzini. Questo cambiamento della società italiana (o meglio occidentale) non è stato provocato dalla potenza della televisione commerciale come molti pensano. Gozzini rileva come tale mutazione sia l’effetto di una lenta ed inesorabile trasformazione sociale prodotta dalla baby boom generation degli anni ’50 in poi. Trasformazione che ha generato, scrive Gozzini, la “cancellazione dell’orizzonte collettivo della storia e della politica: la realtà si riduce a un microcosmo di individui che si confrontano tra loro”. Certi media come la televisione hanno solo amplificato e fatto da sponda a questo cambiamento.
Immaginare che la riedizione di partiti liquidi come Forza Italia, o la sua variante grillina, possa aiutare l’Italia ad uscire dalla crisi è fuorviante. Questa crisi, come insegna il sociologo Zygmunt Bauman, è generata proprio dalla liquefazione dei corpi solidi della società (Stati, partiti, religioni, corpi sociali) che spiana la strada al dominio del potere economico personificato dai mercati. Polverizzare i partiti, costruire classi dirigenti attraverso selezioni stile Grande Fratello significa indebolire ancora di più la politica, quindi la sovranità dei popoli, a vantaggio dei poteri economico – finanziari. Su questo punto Michele Prospero da tempo mette in guardia sui rischi della “privatizzazione dei partiti”. La totale cancellazione di forme di finanziamento pubblico ai partiti trova totale consenso tra la gente (per gli abusi che ben conosciamo) ma provoca guasti ben più gravi. “Negare ai partiti i fondi per la cultura, per l’informazione, per le funzioni organizzative – scrive Prospero – significa impoverire la democrazia e darla in appalto alle potenze del mercato”. Bisogna stare attenti a non lasciarsi ingannare dalla facile retorica berlusconiana e grillina contro il finanziamento pubblico, che in fondo mira a consolidare un sistema fatto di “partiti padronali e liquidi”.
Se si vuole contrastare la tirannia della finanza e dei mercati, ormai senza più controllo politico, occorre andare in senso opposto. Per liberare e rafforzare le istanze comunitarie e identitarie insite nella società – il sociologo Manuel Castells le descrive come forme di “resistenza comunitaria” – è necessario ricostruire strutture solide e non fluide. Ragionare su forme partecipative, ovviamente moderne, in grado di riappropriarsi della sovranità politico – economico – culturale perduta in favore del mercatismo. Perché “la politica – come scrive Marcello Veneziani – senza la partecipazione è nudo potere, gestione funzionalistica delle strutture pubbliche, tecnocrazia e governo dei manager”.