“Ogni tre mesi mi spostano. Mi fa sorridere che mi accoppino a tutte le città. Da Torino a Roma, poi a Palermo. Ma no, non smentisco”. Massimo Giletti è il nuovo oracolo del centrodestra italiano. Intervistato in radio a Rtl 102.5, il volto tv di La7 ha rafforzato la ridda di voci sul suo conto. È il candidato a sindaco della coalizione preferito da Fratelli d’Italia e Lega. Dove? Ma ovunque!
Le origini piemontesi, inizialmente, lo avevano fatto associare a Torino dove si deve scegliere chi sarà il successore di Chiara Appendino. Dato l’impegno civile e televisivo contro la criminalità organizzata, lo avevano poi “spostato” (ipse dixit…) a Palermo dove avrebbe dovuto combattere per la fascia tricolore oggi indossata da Leoluca Orlando. Però Giletti è un volto nazionalpopolare e per decenni è stato in Rai. Che vuol dire Roma. E, allora, perché non associarlo anche alla Capitale, per il dopo Raggi?
Va chiarito che il tema non è una questione personale su Massimo Giletti. Ci mancherebbe. È un libero cittadino, un apprezzato professionista e una sua candidatura sarebbe anche importante. Certo, a patto di sapere dove correrà da sindaco, però. Utilizzare un nome tv per fare un po’ di ammuina su tutte le piazze in cui si andrà a votare è un segnale di tremenda debolezza. Vuol dire certificare la bocciatura, senz’appello, delle proprie classi dirigenti sui territori: a Torino, Palermo, Roma non c’è nessuno in grado di poter contendere la fascia tricolore senza dover ricorrere a un volto notissimo della televisione, facendolo addirittura uno e trino nelle candidature?
Delle due, l’una: o nei Comuni il centrodestra non ha proprio nessuno capace di convincere col suo nome oppure i partiti non hanno mai smesso di soffrire di quella tremenda malattia infantile che colpisce soprattutto la destra, quella della subalternità politica oltre a quella culturale.
È malattia tutt’altro che asintomatica, anzi. Comporta la convinzione di non essere in grado di poter ambire a vincere nulla senza appoggiarsi a qualcuno/qualcosa che sia altro da sé che funga da sostegno, da bastone o – peggio ancora! – da “sdoganatore”. È, in realtà, il piacere sottilmente cervellotico di mascherare dietro la retorica della militanza e della gavetta il rifiuto ad assumersi le proprie responsabilità. Che sarebbe anche legittimo se non comportasse conseguenze serie. Nel grande pubblico elettorale, infatti, confermerebbe il pregiudizio instillato dagli avversari che dipinge una destra buona (solo) per l’opposizione e non adatta a governare sul serio.
Eppure la destra, che nel furore di far dimenticare una stagione ventennale conclusasi troppo malamente per essere anche solo evocata, pare essersi scordata che ha già governato. Nei Comuni, nelle Regioni, a livello locale e nazionale. Bene o male, ma lo ha fatto. La stessa Giorgia Meloni è stata ministro e senza bisogno di qualcuno che ne giustificasse la presenza al governo. Ma c’è di più: la destra non solo ha governato, ma governa attualmente Regioni (tra cui le Marche) e città importanti (come l’Aquila). E ciò per tacere della Lega che governa Lombardia e Veneto, delle esperienze post-forziste come quella di Toti in Liguria.
E allora perché quando il gioco si fa “duro” e si parla di città-capitali la destra deve ricorrere al refugium peccatorum della “società civile” (come se non avesse già fatto abbastanza danni…) e, nello strano e triplice caso siculo-romano-torinese, allo smembramento elettorale della figura apprezzatissima dal grande pubblico di Massimo Giletti?