«Terra, tu sei per me piena di grazia»
Questo splendido endecasillabo si trova un una delle poesie di Pianissimo (1914) di Camillo Sbarbaro (1888 – 1967), una raccolta di una trentina di liriche dal tono sommesso, colloquiale, dal linguaggio semplice e piano. Il testo passò quasi inosservato al suo apparire, pur essendo uno dei più rappresentativi e rilevanti del primo Novecento. Pianissimo, infatti, fu «il primo vero esempio in Italia di poesia che torcesse radicalmente il collo all’eloquenza tradizionale» (Pier Vincenzo Mengaldo), completamente al di fuori della retorica dannunziana e dell’altisonante verseggiare dei futuristi, secondo una linea leopardiana di cui riprende anche il tema esistenziale dell’insensatezza e della vanità del vivere.
Per Sbarbaro, che visse una vita appartata, priva di grandi avvenimenti esteriori, dedicandosi all’insegnamento del latino e del greco nei licei e alla raccolta di erbari di licheni e muschi che gli dettero comunque una notorietà internazionale, l’uomo non comprende più né se stesso né il mondo, dove cammina come «un sonnambulo».
Su tutto domina il disincanto. «Perduta ha la sua voce / la sirena del mondo, e il mondo è un grande / deserto», scrive icasticamente in un’altra lirica di Pianissimo. Perfino l’amore che a tratti illumina la vita, come testimoniano i Versi a Dina – una raccolta dedicata al tema amoroso di poco successiva a Pianissimo – alla lunga non resiste alla corrosione del tempo e alla negatività insita nelle cose: «Estrema delusione degli amanti! / invano mescolarono le vite / s’anche il bene superstite, i ricordi, / son mani che non giungono a toccarsi».
L’insignificanza del mondo, l’inerte disperazione di Sbarbaro è però temperata dagli affetti familiari (notissima è la poesia dedicata al padre) e soprattutto dalla natura vivente: «Finché vicino a te mi sentirò / così bambino, fin che la mia pena / in te si scioglierà come la nuvola / nel sole, / io non maledirò d’esser nato». Come osserva in Fuochi fatui (una raccolta di brevi prose del 1956), la natura «è la sola costanza, la sola fedeltà che conosco nella incertezza di tutto».
Scriveva non a torto l’ecologista americana Rachel Carson in Primavera silenziosa: «C’è qualcosa di infinitamente confortante nei ricorsi naturali: la sicurezza che l’alba seguirà alla notte e la primavera all’inverno». In Sbarbaro al pessimismo fa da contrappeso «la fiducia-evasione» (Pier Vincenzo Mengaldo) nella natura. Solamente le emozioni naturali possono a volte scacciare il male di vivere.
Sandro Marano