“I Baffi” di Emmanuel Carrère esce in Italia solo nel 2020 per Adelphi, a distanza di 34 anni dall’uscita francese. Che coincidenza sibillina: un romanzo sulla ricerca, perdita, riscoperta (?) dell’identità, pubblicato in un momento storico estremamente particolare quale è il nostro. Chissà se questa casualità possa aiutare l’animo umano a trarne qualche “giovamento”.
Siamo abituati a leggere un Carrère narratore di eventi biografici/autobiografici, come in “Limonov” o ne “L’avversario”. Ma in questo libro l’autore dà probabilmente maggior spazio alla sua immaginazione, indubbi, però, sono i riferimenti ad alcuni romanzi espressionisti: al naso storto del signor Moscarda, alla fuga di Mattia Pascal, o al naso di Kovalèv. Nonostante lo scrittore affermi, in una intervista, di non conoscere bene autori come Pirandello o Kafka, a cui più volte è stato associato, quello de “I baffi” rimane certamente un romanzo sulla perdita della propria identità e la spasmodica ricerca di riappropriarsene a qualunque costo.
È indicativo il fatto che l’opera sia stata scritta negli anni Ottanta del ‘900: si tratta di un’epoca definibile, a distanza di tempo, quasi “incolore”. È un’epoca di transizione, la cui generazione sembra vivere il “trauma senza evento”, se vogliamo usare le parole di Nicola Lagioia in “Riportando tutta a casa” (Einaudi). Non c’era stato, ai tempi, alcun evento sconvolgente, una guerra, un bombardamento atomico. Nulla da cui far discendere la giustificazione dell’esistenza di un turbamento, esteriore o interiore che fosse. Eppure, qualcosa di subdolo si insinua, in quegli anni, nella quotidianità del singolo, segretamente, e nessuno ne è immune. Avrà voluto descrivere anche Carrère i sentimenti e i cambiamenti societari degli anni ’80, di cui parla Lagioia? Sicuramente è possibile affermare che s’incontrano sempre giovani generazioni smarrite su cui pesano gli errori della generazione precedente e che non riescono a trovare una loro via per il futuro.
E così, ci ritroviamo insieme a “lui”, il protagonista dell’opera di cui non ci è dato conoscere il nome. Un giovane architetto che quasi per scherzo decide di tagliare i suoi baffi. Da quel momento in poi ha inizio la sua Odissea, con un epilogo dissimile da quello di Ulisse.
“Scendendo al piano interrato dove c’era il parcheggio, Agnès (la moglie n.d.r.) controllò il trucco nello specchio dell’ascensore, poi gli rivolse uno sguardo di approvazione, ma con ogni evidenza quello che approvava era l’abito e non la metamorfosi. […] Perché faceva finta di non aver notato niente? […] non aveva battuto ciglio, non aveva cambiato espressione, niente, come se avesse avuto il tempo di prepararsi allo spettacolo che l’aspettava.” (pp. 16-17)
Nessuno sembra accorgersi del cambiamento, per nulla sorpresi sembrano anche gli amici Serge e Véronique, da cui si recano a cena i due coniugi, o i colleghi di lavoro. Sarà mica un complotto? Sono tutti pazzi? E se fosse lui il pazzo? Il protagonista precipita così nel baratro dello sconforto, dando il via ad una ricerca ossessiva della sua identità, un viaggio attraverso se stesso e il mondo esterno, durante il quale di ogni cosa, anche del passato, ne viene messa in dubbio l’esistenza.
“Strinse i pugni, chiuse gli occhi più forte che poté per fare il vuoto, sottrarsi a quell’andirivieni tra due ipotesi che aveva già compiuto cinquanta volte e che non portava da nessuna parte, se non dall’una all’altra, dall’altra all’una, senza alcuna bretella d’uscita per tornare alla vita normale.” (p. 60)
Pur di trovare una soluzione alla sensazione pervasiva di follia, il protagonista pensa di poter porre fine alla propria vita, o di sparire, addirittura in un altro continente, o ancora di ritornare a casa (dopo esser scappato ad Hong Kong) e far finta di nulla. Quale la soluzione migliore? Come “ritrovarsi”, se è possibile farlo?
“Lo attraversò l’idea, folle ma inebriante, che avrebbe potuto benissimo rimanere a Hong Kong, non dare più notizie, non aspettarne né da Agnès né dai suoi né da Jèrôme, dimenticarli, dimenticare il proprio mestiere e trovarsi una cosa qualsiasi da fare per mantenersi lì, o anche altrove, comunque in un luogo dove nessuno lo conoscesse, dove nessuno s’interessasse a lui, dove non avrebbero mai saputo se avesse avuto i baffi o no.” (p. 113)
Questo è un libro in cui si crea un profondo senso di empatia tra lettore e protagonista, ed è indubbiamente anche e soprattutto un libro che spiazza.
“[…] adesso tutto era finito, tutto rientrava nell’ordine.” (p. 149)
*“I baffi” di Emmanuel Carrère (pp. 149, euro 17,00, Adelphi)