La performance di Mircea Cantor
Venti minuti per dire che il Teatro è vivo. Venti minuti dura il rito purificatore ideato da Mircea Cantor, compiuto dai trentadue allievi dell’Accademia del Dramma Antico e annunciato dallo scampanio rock di Denis Latîșev. Una performance suggestiva che l’artista rumeno, punta di diamante dell’arte concettuale contemporanea e premio Duchamp 2011, ha pensato per Siracusa, per il Teatro Greco rovesciato in questo ostinato tempo virale. Al quale tempo Cantor – da poeta dell’oggetto qual è- ha opposto un corpo che lotta, resiste e suona. “Il suono del mio corpo è la memoria della mia presenza” è il titolo del gesto artistico della site specific art pensato per la cavea del teatro siracusano.
Il titolo, ancora una volta per Cantor (nella foto), sposta elementi reali in identificazioni sinestetiche. Il suono è la memoria, il corpo è la presenza. Cantor rinasce dal primo oggetto, quello primordiale: il corpo sonante, la voce. E dal più antico nunzio: la campana. “Una grande e sovradimensionata campana. Questo oggetto bello, misterioso e al tempo stesso semplice è onnipresente, sin dall’antichità, in tante culture, e assume tanti significati diversi per innumerevoli culture”. L’unione del suono della campana e del suono ancestrale della voce umana produce un movimento mentale stravagante: muove all’indietro il tempo e si fa memoria e contemporaneamente proietta in un indefinito e agognato domani l’annuncio di una nuova consapevolezza di sé. Dal buio alla luce – così l’esordio della stagione “Per voci sole” con Nicola Piovani- e dalla luce alla purificazione: il rito, la festa, il fuoco. Cantor conclude la sua prima volta in un teatro con l’accensione del fuoco: una levata di scudi in plexiglass che si incendiano (o quasi: Cantor non ha calcolato il vento umido di Sicilia che gli spegne per ben due volte le micce) rivelando una sequenza, la più primordiale e benaugurante: la spirale del DNA (in verità se avesse trovato il modo di metterla in verticale sarebbe stata di più immediato effetto). L’auspicio di una rigenerazione più che di una resurrezione. Nel bla bla bla della retorica dei balconi e degli arcobaleni, degli slogan di una resurrezione etica a oggi improbabile, il rito che si è celebrato al Teatro Greco è un inno all’essenzialità e alla concretezza. Alla nudità.
I protagonisti
Ed è nel corpo completamente nudo di un’allieva dell’Accademia del Dramma Antico che avanza tenendo in mano una campana da cui eroticamente ed eroicamente beve il suono che la performance di Cantor trova il suo nucleo di senso. Che dire performance di Mircea Cantor è quantomeno impreciso. Perché i veri protagonisti della serata evento sono stati gli allievi dell’Accademia e i loro docenti: Dario La Ferla (nella foto durante le prove) che ha curato i movimenti coreografici, Simonetta Cartia ed Elena Polic Greco per l’ideazione e la direzione del coro. Come l’arte di scenotecnico di Carlo Gilè che ha realizzato le campane o il tappeto musicale elettronico di Simone Caserta. Senza trascurare i costumi di Marcella Salvo.
Una prova importante per l’Accademia a conferma della grande professionalità, della passione e della severità di mestiere che contraddistingue una delle realtà teatrali più interessanti del nostro Paese. Il rito si apre con un lungo assolo di campane di Denis Latîșev.
Campanaro di Bucarest, Denis Latîșev che suona da quando aveva nove anni, ha suonato, legato mani e gamba alle sue campane poste in un angolo alto della cavea e senza uno spartito, armonie che hanno fuso le liturgie sonore della Chiesa ortodossa a una reinvenzione moderna. Le campane negli antichi villaggi, nelle ritualità civili e religiose sono messaggere di preghiere, morti e feste. E chissà se Cantor e Latîșev conoscono anche le campane manzoniane di Don Abbondio e dell’Innominato o quelle di Verga o le campane delle feste di Pasqua che si snodano a lutto e a festa nei tre giorni della Passione. Campane simili nella forma a quelle portate in scena dal fondo della platea una dietro l’altra in posizione speculare da dieci attori e poste ai lati del palco.
Sono campane senza suono, perché il suono nasce dalle voci onomatopeiche che dai gradini della cavea e dalle labbra e gole del coro brillano, tuonano, tremano, squillano, riempiono. In mezzo c’è lo spettacolo muto del perturbante. Così lo descrive il coreografo Dario La Ferla “La campana con i corpi che la trascinano e che si muovono attraverso sono il simbolo del perturbante che arriva in una comunità, separa e crea uno stato di allerta. I corpi hanno un incedere preciso. La psicomotricità corporizza il loro essere una nube tossica che arriva dal pubblico come avviene nel contingente reale arriva dagli altri”. Nel progetto coreografico di La Ferla “i corpi diventano bocche, come dei luoghi di olocausto e la situazione di chiusura e asfissia appena vissuta” e c’è la coppia edenica. La Ferla, seguendo anche per loro più che il teatrodanza (con cui si è formato) le coreografie di Maguin Maren, lega i due attori “con grosse cime e via via da questi campanaria vengono trascinati in scena e tirati giù fino a dopo una reazione oppositiva, cedono e vengono letteralmente inghiottiti dalle campane. Il che è quello che abbiamo vissuto. È Bergamo con i camion che mescolano soldati e bare. La coppia lavora sulla parte superiore del corpo: con un condizionamento importante per la motricità e i contorni espressivi di tutto valore”. Dalla disciplina della parola alla disciplina del movimento come il roteare le campane facendone dervisci danzati o riprendere il passo dionisiaco o ancora il pas de deux in cui persino il rispetto delle distanze viene simulato nell’atto scenico della corda. In ogni momento gli allievi, sono stati all’altezza del loro compito.
Racconta Elena Polic Greco,che ha ideato i canti insieme a Simonetta Cartia “Con tutte le protezioni e seguendo tutte le regole siamo riusciti con disciplina ferrea a mettere in scena trentadue persone, un buon auspicio per il futuro del nostro mestiere. Per molti ragazzi è la prima esperienza. Si sono dati con una passione e una regola ferrea e sono stati bravissimi. In questo lavoro la forza del coro fa emergere i solisti, che sono liberi di variare e liberare la voce. E’ una metafora di quello che gli attori dovrebbero fare nel loro percorso”.
Il possesso della scena dei due solisti Nicola Morucci e Irene Jona è lo stesso degli altri trenta giovani attori: dei coreuti che inchiodavano all’ascolto nella varietà dei suoni (dai bassi continui alle note tenute fino ai picchi), dei campanari “per quanto mi riguarda sono la campana” dice La Ferla e aggiunge “sono in realtà corpi mefitici che lasciano tracce per terra”. Una sfida difficile per gli allievi perché grande spazio è stato dato all’improvvisazione. Gli interventi musicali cantati racconta Elena Polic Greco partono “da un lavoro sull’improvvisazione vocale con dei suggerimenti dati da Cantor: da lì abbiamo improvvisato e siamo arrivati a una formalizzazione di un canto che è quasi continuo, che compone insieme al movimento la ritualità del momento. Abbiamo messo in campo la nostra esperienza spaziando da canti molto delicati e quasi sacri a cluster che rafforzano la sensazione di angoscia e di incognita per il futuro. Da queste dissonanze abbiamo ripreso delle armonie leggere ma anche pensato a voci piene oppure sgradevoli. Un lavoro sulle opposizioni, cui c’è stato di aiuto Simone Caserta, un giovane compositore che ci ha sostenuto nella parte musicale e a rendere formale l’improvvisazione”. A misurarsi con la novità del teatro è stato Cantor (che ha tradito qualche incertezza specie nella parte finale della performance o nel calcolo degli angoli della visuale scenica) ma anche gli artisti dell’Accademia hanno provato a riportare alla teatralizzazione la serialità e l’asciuttezza proprie dell’arte di Cantor.
Le campane
Un lavoro di incontri e di condivisioni. Ne è convinto pure Carlo Gilè che ha materialmente realizzato le campane. “Lavorare con Cantor è un’esperienza nuova rispetto al teatro cui siamo abituati noi. Preferisco la poetica del teatro che è un work in progress tra noi scenografi, i tecnici e il regista. Nelle performance artistiche questo non avviene un vero processo collettivo. Per me è sempre una sfida e quando abbiamo portato in teatro le campane ho capito che la sfida è stata vinta”.
Gilè lavora all’Inda da venticinque anni e ancora si emoziona come da bambino quando veniva con il padre a sbirciare nei laboratori. Ha fatto un lavoro eccezionale “Ho usato il polistirolo espanso, trattato stavolta con il sistema dei carri di Carnevale, cioè rivestito di fogli di giornale e poi rifinito con una malta che si avvicina alla porosità della pietra. La dimensione illude perché essendo molto veritiere sembrano più pesanti ma riescono a sollevarle in cinque per una per un peso che va intorno ai 90 chili. Ho passato nottate passate a ragionare su come realizzarle e quando le ho assemblate e visto che il lavoro è stato fatto con i criteri giusti, ho pensato che il teatro offre sempre un privilegio: un nodo alla gola ogni volta che vi entri”. Nelle parole di Gilè c’è l’emozione che solo il teatro può dare. La stessa che brillava negli occhi dei ragazzi e degli artisti nel momento lungo degli applausi. Peccato che Mircea Cantor abbia negato a se stesso il vero atto teatrale: presentarsi al pubblico per prendersi quegli applausi.
Gli altri eventi della serata
A inizio di serata il tradizionale premio Eschilo d’oro, che ogni anno chiude la stagione dell’Inda con l’omaggio a personalità importanti della cultura e del teatro classici. Quest’anno sul palco la grecista Eva Cantarella premiata per il suo lavoro di erudita sempre attenta ai temi civili di grande attualità. Il palcoscenico dell’Inda ha ospitato anche il V premio “Custodi della Bellezza” voluto da Fabio Granata e dalla direttrice di NaxosLegge Fulvia Toscano. E’ stata premiata Fiammetta Borsellino, per il modo tenace con cui tiene viva la memoria del padre. E il nome di Paolo Borsellino risuona anche tra quelle pietre così antiche come l’eco dell’unica rinascita possibile, quella dei valori umani, della Verità e della Giustizia. Il teatro come altare. E se deve anche essere l’altare di un rito propiziatorio non poteva non portare un augurio.
L’arrivederci al 2021 con la raffinata presenza delle tre attrici protagoniste della prossima stagione. Galatea Ranzi, Anna Della Rosa e Lucia Lavia (nella foto) hanno letto e recitato (invero solo Lucia Lavia alla lettura ha preferito, giustamente, l’interpretazione) passi rispettivamente dalla commedia “Nuvole” di Aristofane e dalle tragedie di Euripide “Ifigenia in Tauride” e “Baccanti”. Una triplice prova d’attrice che nella diversità di ritmo (non solo del testo) e di approccio scenico preannuncia una effervescente prossima stagione.