Essenzialità ed eleganza: questa la doppia cifra dello spettacolo andato in scena ieri sera al Teatro Greco di Siracusa. Doppia cifra per uno spettacolo che, come un’eruzione vulcanica, dapprima ha dato più o meno timidi segnali e poi è esploso con tutta la sua potenza: la timidezza di Antigone, Fedra e Lena in una sorta di climax fino al fuoco criminoso di Clitennestra. L’essenzialità tradotta nella simmetria del palco: a sinistra dello spettatore gli strumenti, in fondo a destra uno sgabello e in ribalta il leggio; essenziale è pure la lettura di Laura Morante (nella foto) per tre delle donne greche raccontate in “Fuochi” di Margherite Yourcenar.
Essenziale è l’incursione musicale del violino di Rodrigo d’Erasmo (polistrumentista, compositore e membro degli Afterhouse) e della chitarra di Roberto Angelini (cantautore, produttore musicale, nella band di PropagandaLive; nella foto insieme a D’Erasmo). Nei due musicisti all’essenzialità si coniuga il virtuosismo, la genialità dell’improvvisazione, la ricerca, l’affiatamento (visibile pure nei sorrisi e nelle parole che si scambiano in scena) fatto di progetti come PongMoon sognando Nick Drake.
La poesia e la magia. Le note malinconiche di Nick Drake, il cantautore inglese che in altri tempi si sarebbe guadagnato un posto tra i poetes maudits per il modo in cui visse la musica, bruciò la vita e conquistò la fama da postumo, dovrebbero essere l’eco delle parole di variato disincanto di Fedra, Antigone e Lena.Ma già nei primi due minuti dello spettacolo appare chiaro che sono le parole a diventare l’eco della musica. Quando Rodrigo D’Erasmo lascia al violino lo spazio scenico e Roberto Angelini mette le dita sulla chitarra, il pentagramma diventa strofa, frase. D’Erasmo e Angelini con i loro strumenti piegati a ogni sperimentazione e contaminazione ( jazz, folk, etno, rock) potevano essere due alieni tra quelle pietre così antiche. Basta, però, fare qualche passo indietro verso il V secolo, quando Euripide volle per le sue tragedie la nuova musica di Timoteo di Mileto che piegò aulos, kithara, barbitos a nuove melodie contaminate, la polychordia. Passi indietro che spiegano come oggi una chitarra acustica e un violino con gli spettri sonori elettronici possano stare in completo agio tra luoghi antiche e parole solenni. E creare musicale eleganza. Eleganza che appartiene senza dubbio a Laura Morante.
Bellissima, Laura Morante pare sempre sfuggita a una pellicola della nouvelle vague: enigmatica e inquieta anche qui, mentre prova a dare un senso ai racconti di Yourcenar. Una dizione perfetta su una lettura a volte troppo veloce, a tratti monocorde da non lasciare distinguere di Yourcenar la Antigone “baccante della Resurrezione” (o quella di Sofocle che apre lo spettacolo), o la Lena “cagna fuori dalla porta” del tirannicida Aristogitone, e ancora la Fedra (nello spettacolo contaminata da versi da Ippolito di Euripide) inebriata del “gusto dell’impossibile”. Libro della furia di un amore deluso, “Fuochi” (forse non a caso traduttrice d’eccezione è la poetessa Maria Luisa Spaziani, la volpe di Montale) è un diario di incandescenza linguistica.
Yourcenar erutta dalle viscere del suo cuore vulcanico la rabbia delirante di donna rifiutata in un impasto linguistico scandaloso: per il ritmo anche sonoro del lessico e per lo straniamento temporale ottenuto per accostamenti verbali e metaforici, che fanno dell’anacronismo poesia. La lettura scenica di Laura Morante, seppur impeccabile, non restituisce sempre al pubblico l’urlo che la Yourcenar ha affidato alle sue donne: l’incestuosa Fedra è un coacervo indiavolato di colpa e innocenza; la pura Antigone è raccontata da Yourcenar nelle pagine dal linguaggio più feroce di tutto il libro e più intriso di ineluttabilità “Il tempo riprende il suo corso al rumore dell’orologio di Dio. Il pendolo del mondo è il cuore di Antigone”; e poi Lena imbarbarita dalla dedizione fino a mozzarsi la lingua. Le tre donne, nella lettura volutamente fredda e didascalica di Morante, restano come apparizioni distanti e la volontà di rendere la nuda parola, eliminando ogni pathos interpretativo, appare a tratti una velleità. Ancora di più se l’arrivo di Clitennestra rivoluziona lo spettacolo. La regina di Micene racconta l’assassinio di Agamennone. Per Yourcenar non è la madre afflitta dalla barbarie del padre di sua figlia, non è l’amante di Egisto: Clitennestra è l’amour fou, è una donna innamorata che teme, invecchiando, di perdere l’amore del proprio uomo. Dalla rabbia al delirio: la parabola di Clitennestra trova Laura Morante pienamente dentro il personaggio.
Legge e interpreta, accompagna con i gesti i momenti dell’anima dell’assassina, dà alle parole tutte la scala cromatica delle emozioni, asseconda il ritmo della musica e offre il suo sguardo intenso alla verità della regina, dà corpo alle note della Yourcenar “Cessare di essere amata, significa diventare invisibile. Tu non ti accorgi più che io abbia un corpo”. Il quadro di Clitennestra vale l’intero spettacolo. Arriva pure la regia, pardon la cura registica, di Fabrizio Arcuri (nella foto), finora affidata a un significativo gioco di luci e a poco originali volute di fumo.
Copioso il fumo a dispetto di un’avarizia: la musica e le parole durante lo spettacolo hanno provato poco a mescolarsi; invece, quel nesso di senso tra lo sperpero di vita di Nick Drake e quello delle eroine combuste di Yourcenar, tra l’elegia del primo e l’asprezza della scrittrice aveva tutte le potenzialità per comporsi in un’opera musicale.
Finalmente i musicisti e l’attrice possono guardarsi negli occhi, seppure per un attimo: il leggio viene messo al centro e la luce investe i tre artisti. L’episodio di Clitennestra è annunciato da una suite di D’Erasmo e Angelini scalpitante. Finalmente si perde lo iato tra la compostezza della lettura e la seduzione della musica. Si lascia posto all’emozione.