Terra Alta (Guanda), il nuovo romanzo di Javier Cercas, con cui ha ottenuto “il Planeta”, il più prestigioso premio letterario iberico, segna una svolta rispetto all’ultima produzione dello scrittore spagnolo. Per non incorrere nell’accusa di manierismo – come egli stesso dichiara, in collegamento web al Festival Il libro possibile di Polignano a Mare in provincia di Bari -, spiazza il lettore, abituato alla narrativa storico-saggistica dei precedenti lavori, e adotta il genere thriller, contaminandolo con squarci hard boiled. L’episodio che innesca le peripezie, la barbara morte dei coniugi Adell, ricchi industriali della Terra Alta, sembra una citazione allusiva ad una scena pulp di Tarantino:
“Due ammassi insanguinati di carne rossa e violacea … zuppi di un liquido grumoso – misto di sangue, viscere, cartilagini, pelle”.
Le regole formali e strutturali del racconto giallo, stilate da S. S. Van Dyne, nel secolo scorso, sono rigorosamente rispettate: azione, inseguimenti, suspence, investigazione condotta con metodo deduttivo. Lo statuto del protagonista è conforme al cliché, Melchor Marín è dotato di acume da segugio, capacità intuitiva di risolvere spinosi enigmi, un certo machismo.
Maestro del genere non-fiction, in cui si mischiano, senza un distinto confine, accadimenti reali e fittizi, Cercas ha esaminato momenti epocali della storia spagnola contemporanea. Anatomia di un istante, per esempio, è un’accurata ricostruzione del tentativo di colpo di stato del 23 febbraio 1981 e Soldati di Salamina è un’appassionata indagine sulla contraddittoria figura di Rafael Sanchez Mazas, fondatore e ideologo della Falange, che, al momento della fuga dei Repubblicani verso la Francia, nelle ultime fasi della Guerra civile spagnola, viene inspiegabilmente risparmiato da un avversario.
In Terra Alta, in continuità con le opere del passato, la Storia riemerge nel tratteggio degli sfondi. Il blocco centrale del romanzo è ambientato in anni recenti, quando il Paese è scosso da una nuova ondata di attacchi jihadisti. Nella finzione, il protagonista, infatti, é il poliziotto che il 17 agosto 2017, uccide a Cambrils quattro componenti di un commando terrorista che, replicando le modalità dell’attentato commesso sulla Rambla a Barcellona poche ore prima, aveva cercato di travolgere, a bordo di un’Audi A3, dei passanti in una zona pedonale. Il timore di rappresaglie impone a Melchor di trasferirsi in Terra Alta, una delle 41 comarche della Catalogna.
L’indipendentismo catalano è sotteso nei dialoghi tra i personaggi, ma è tema in apparenza solo sfiorato. Di fatto, Cercas, seppur in modo mediato, va alle origini del movimento autonomista: “la radice de la mala pianta” dei nazionalismi iberici, questo traspare, è la guerra civile. Il vulnus mai ricucito degli odi e delle discordie che si perpetrano di padre in figlio, di generazione in generazione «C’è gente che dimentica che quella guerra è stata anche questo … Una valvola per sfogare gli odi, i diverbi e i rancori accumulati per anni.» – osserva il vecchio Armengol, deus ex machina dell’intricata vicenda.
La vendetta, dunque. Questo motivo ancestrale attraversa l’intera scrittura. Nelle civiltà arcaiche e, nel mondo greco in particolare, la Nemesi, intesa come giustizia compensatrice o necessità di riparare l’equilibrio infranto da una colpa originaria, è considerata un dovere sociale. Un’esigenza distruttiva che genera, tuttavia, un bisogno di emendazione per l’aggressività liberata.
Per la marcata cifra metaletteraria, Terra Alta appartiene a quella schiera di “romanzi facili da leggere e difficili da capire” (Cercas), che non può essere interpretato senza tener conto della lezione dei tragici greci o di Shakespeare. Porta, infatti, in scena la tensione tra hybris e dike che, nella sensibilità di un contemporaneo, però, è destinata a rimanere insoluta. Come un refrain, a turno, i personaggi riflettono sull’odio e la giustizia. “L’odio è un sentimento che ti avvelena fino al midollo”(356) e ti concede solo brevi pause “Ore senza odio… con una leggerezza prodigiosa e … priva di dolore” (361), perché all’improvviso il dolore e l’angoscia si riaffacciano prepotenti.
Rimane sospeso il giudizio dello scrittore sulla possibilità che esista una compensazione al male “a volte la giustizia assoluta può essere la più assoluta delle ingiustizie”. Melchor non possiede né la passione di Oreste perseguitato dalle Erinni, né la grandezza luciferina di Macbeth, ma nemmeno la magnanimità di Oliver Twist. È un eroe dimidiato come Don Chisciotte, il personaggio più paradigmatico della letteratura spagnola. Al pari dell’hidalgo di Cervantes, che imita le gesta dei cavalieri antichi apprese attraverso i libri, anche Melchor sceglie un libro-guida, i Miserabili di Hugo. Esso, a poco a poco, smette “di essere un romanzo e si trasforma in un’altra cosa, una cosa senza nome o con molti nomi, un vademecum vitale o filosofico, un libro oracolare o sapienziale, un oggetto di riflessione da rigirare come un caleidoscopio infinitamente intelligente, uno specchio e un’ascia” (67). E così il protagonista, alternativamente, si identifica in Jean Valjean, “la furia di Valjean era la sua furia, il dolore era il suo dolore, l’odio era il suo odio”, e in Javert, il poliziotto nemico “con occhi da uccello rapace, cuore di legno e volto da cane nato da una lupa, uno sradicato senza speranza e senza futuro” (63). La Terra Alta per Melchor, come la Mancia per Chisciotte, è l’ambiente ideale di imprese superbe, anch’egli, come il pitocco nobiluomo, lotta contro i mulini a vento rappresentati dai potenti locali che ostacolano le sue indagini, spinto all’azione dalla sua Olga, una moderna Dulcinea, rinchiusa non in un castello ma in una biblioteca.
Il romanzo di Cercas non è asfitticamente ‘spagnolo’, ma ampiamente ‘europeo’, parla a tutti i popoli che hanno vissuto una guerra civile le cui piaghe purulente sono visibili ancora oggi.
E infatti la Terra Alta, attraversata da conflitti intestini, le cui ragioni storiche e politiche si intrecciano a beghe familiari, non è dissimile da molti luoghi della provincia italiana in cui si è combattuta tra il ‘43 e il ‘45 una lotta fratricida altrettanto sanguinosa e sporca le cui cause ideologiche hanno coperto spesso veleni e dissidi privati.
Ma se la terra alta è ovunque, perché non esiste in Italia uno scrittore aperto e libero nel raccontarla?
Qualsiasi tentativo di appannare la storia, le storie o le microstorie è una forma malcelata di ‘negazionismo’, qualunque matrice abbia. Pertanto, qualunque voce va ascoltata. Il problema è che nessuno si accolla la responsabilità morale di narrare fatti diversi da quelle noti. Allora sorge il dubbio: vi sono altre storie da raccontare?
Sì, ci sono, ma sono storie dei ‘vinti’, paradossalmente anche in Spagna, dove il pensiero nazionale ha vinto la Guerra Civile…
Potrebbe essere interessante riunire questi racconti, in una prospettiva divergente. Ma quale editore sarebbe così coraggioso? Il coraggio consisterebbe nella neutra (semmai possibile!) narrazione senza prefazioni o postfazioni ideologiche. Bah!