“Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, scriveva Tolstoj nel 1877, nel celeberrimo incipit di “Anna Karenina”. Ed è sicuramente il caso della bizzarra famiglia di Andrea, la protagonista adolescente di “Nada”, il romanzo d’esordio di Carmen Laforet, recentemente – e meritoriamente – ripubblicato da Cliquot (ottobre 2023, 20 euro).
Il romanzo in questione, uscito nel 1945 e scritto un paio d’anni prima, quando l’autrice aveva solo 23 anni, rappresenta secondo la critica il degrado morale ed economico della società postbellica spagnola. Al contempo, però, e nonostante il loro esser quasi coevi, non ha nulla di “Per chi suona la campana” o di “Omaggio alla Catalogna”, libri virili, avventurosi e “stranieri”, nel senso di scritti da una prospettiva vistosamente “estranea” al paese in cui sono ambientati, e poco anche de “L’uomo a cavallo” di Drieu, pur ambientato in una fittizia Bolivia spagnoleggiante. “Nada” è invece un romanzo sottile,intimista e femminile, che costruisce un lessico famigliare capace di rispecchiare la sofferenza e il degrado della stradae della città di Barcellona pur senza descriverlodirettamente al lettore, salvo rarissime eccezioni. Per il suo respiro mediterraneo e per il carattere di romanzo di formazione “Nada” ricorda piuttosto “L’isola di Arturo”della Morante e lo splendido e misconosciuto “BenoîtMisère” di Leo Ferré, ma soprattutto, per il tasso di surrealtà delle discussioni tra i male assortiti membri della famiglia di Andrea, richiama alla mente “Il re ne comanda una” del triestino Stelio Mattioni – non a caso ripubblicato anch’esso da Cliquot dopo un’edizione adelphiana.
E se fuori di casa ci sono “donne di malaffare, ladri e lo splendore del maligno”, come dirà alla nipote appena arrivata e ancora spaesata la rigida e ipocrita zia Angustias(il cui nome è tutto un programma!), dentro casa le cose non vanno meglio, anzi: lo zio Romàn “ha un porcile al posto del cuore”, suo fratello Juan, artista squattrinato, picchia davanti agli occhi del figlio la moglie costretta avendere i suoi quadri ai rigattieri e giocare d’azzardo per guadagnare qualcosa, la domestica sta acquattata, minacciosa, nell’ombra della cucina, le porte sbattono e Andrea, nonostante l’amicizia con l’altolocata Ena, ha fame, fame, fame…
Il titolo stesso del romanzo, nada, “niente”, fa cenno al rischio che la protagonista corre di diventare come loro, come lo zio che le sibila “Anche tu ti stancherai di tutto… quale persona in questo mondo porco e bello è abbastanza interessante da meritare di essere sopportata?”. E Andrea ci va vicino, sbatte le porte “come facevano tutti in quella casa… come se fossi una di loro…”, si chiude in sé stessa, passeggia da sola, al punto da maledire i passanti incrociati durante i suoi vagabondaggi notturni, rei di toglierle “tutta la felicità che si sarebbe portata via da questo posto!”.
E però “Chi può capire i mille fili che uniscono le anime degli uomini e la portata delle loro parole?”. Non il lettore, almeno in prima battuta, e nemmeno la stessa Andrea, che non ha mai saputo cosa volesse, ma voleva sempre qualcosa, secondo l’acuta descrizione che di lei fa Ena, Ena che le offre anche la chiave di lettura per la loro amicizia, tanto antitetica e squilibrata sul piano economico e sociale, e non solo: “…Non ci posso fare nulla. Tutta la vita ho cercato di evitare i miei parenti normali e rispettabili. A un tempo normali ma a modo loro intelligenti, che è quello che li rende tanto insopportabili… Mi piacciono le persone con quel briciolo di pazzia che fa sì che la vita non sia monotona, anche se sono persone infelici e hanno sempre la testa fra le nuvole, come te… Persone che, secondo la mia famiglia, sono calamità da cui è meglio stare alla larga…”.