Una legge “So bene quale male sto per compiere, ma il furore dell’anima è più forte in me di ogni altro volere” e l’altra recita “Che io ai miei bambini ci volevo bene, che per una madre prendere un’accetta e spaccarci il cranio ai suoi bambini non è mica una roba da ridere…che io sono stata traviata dalla gelosia”. La prima è Lunetta Savino e la seconda pure. Una è Medea di Euripide, l’altra è Medea di Antonio Tarantino.
Ma tra Lunetta Savino che legge Medea di Euripide e Lunetta Savino che recita Medea di Tarantino c’è uno iato. O quella stregoneria che fa del testo teatrale l’abito avvelenato destinato ad altri: se lo indossi puoi bruciarci dentro. In un modo o nell’altro. Lo sa bene Lunetta Savino, che ieri sera al Teatro Greco di Siracusa i rossi panni della scaltra Medea li ha vestiti lei nello spettacolo “Da Medea a Medea” con la cura registica di Fabrizio Arcuri (fondatore dell’Accademia degli Artefatti e regista del Festival Internazionale delle Letterature di Massenzio) e le musiche originali di Rita Marcotulli, pianista tra le più raffinate e riconosciute del panorama musicale contemporaneo.
Essere Medea impone terrore e fascino. Insostenibile specchiarsi nella sua barbarie, attraente l’irriducibilità della sua furia. Assassina dei suoi figli, Medea viola ogni patto: antropologico, sociale, etico, politico. Nega a se stessa la religio della madre antica e si consegna alla ferinità. Essere Medea è più che essere l’omicida dei propri figli: è farsi estremo limite, sorprendere la razionalità sul baratro della follia, elevare la vendetta a giustizia, rivendicare alla passione lo spazio dell’amore. Passione ma anche orgoglio e gelosia. Implacabile è Medea, la strega e la maga, figlia del Sole e alunna di Ecate, la buia luna. Fragile è Medea, la barbara, cui Euripide affida lo scandalo del rifiuto della maternità passiva: l’ateniese Giasone rompe il patto della paternità e Medea, respinta come sposa, rifiuta la maternità. ”Io preferirei rischiare tre volte in guerra che partorire una volta sola” è la provocazione intellettuale di Euripide che con “Medea” scrive, nell’Atene del V secolo, un doppio manifesto: un attacco alla politica della famiglia e una riflessione problematica sulla donna. Medea non può essere estrapolata dal contesto, ne andrebbe della sua universalità. Un’esegesi del personaggio euripideo che ne facesse una femminista ante litteram sarebbe una impropria forzatura. Forzatura da cui si tiene ben lontana la filologa Margherita Rubino che ha adattato il testo di Euripide per la prima parte di “Da Medea a Medea”. Pregevole il lavoro di traduzione e di ricucitura (soprattutto delle rheseis ossia dei discorsi retorici) della tragedia. L’adattamento è un monologo in cui Medea, si appropria persino delle parole di Giasone in un tessuto narrativo, in cui la fedeltà (di Rubino a Euripide) e il tradimento (di Giasone a Medea) sono nello stesso tempo testo e sovratesto.
Stravolge il mito la seconda parte, tratta da “Cara Medea” del drammaturgo Antonio Tarantino. Nel monologo di Tarantino Medea è una sopravvissuta al campo di sterminio di Sobibor. Racconta a un Giasone, bolso e fallito, il suo viaggio per l’Europa dell’Est dopo la Seconda guerra mondiale a bordo di camion in cui imparerà il manuale della perfetta prestazione orale: nel racconto pure l’accenno all’assassinio dei figli. Due testi a confronto, due diverse e fascinose letture di Medea, celatamente ibseniana quella di Rubino, spudoratamente grottesca quella di Tarantino. Per Lunetta Savino, perciò, una doppia sfida: calarsi in un personaggio già all’origine attraversato dall’ambivalenza che in questo speculare copione è amplificata da scelte di linguaggio: nude e assertive del testo di Rubino, nude e violente in Tarantino. Una sfida che Savino affronta con due scelte registiche diverse, un reading e un monologo, giustificabili solo con il tentativo di creare un secondo iato: dal mito alla storia. Lunetta Savino lascia Euripide incollato al leggio e fa corpo scenico della Medea irriconoscibile di Tarantino: una poveracrista tormentata dal rimorso dell’infanticidio, il relitto di una miseria storica e morale irredimibile, definitiva. Congeniale all’attrice è il linguaggio fortemente espressionista di Tarantino che Lunetta Savino, in un monologo di forte impatto volge in barese (perché lingua madre dell’attrice?) interrotto dall’intercalare veneto di “mona” con cui apostrofa Giasone. Alla Savino appartiene pure di questa scomposta Medea il tratto plebeo che esalta e rievoca molte delle figure femminili che ha incarnato. Non si usa a caso il termine incarnare per un’attrice che ha mostrato nell’interpretazione delle madri (l’ultima, Rosa del film di Katja Colja le è valso un meritatissimo Nastro d’Argento), l’ancestrale lacerazione della carne che si fa sentimento materno. Quale migliore occasione per Savino essere Medea, il personaggio desiderato, cercato e voluto in cui provare a trasformare quel sentimento di madre in risentimento? Quando si misura con le parole di Euripide, pur nella modernità e nel fluire del testo di Rubino, Savino appare intimorita. Manca all’attrice la vis del teatro tragico, quella ieraticità che è inscindibile da un gigantesco mito qual è Medea. L’entrata dal fondo della scena, l’incendio di rosso dall’abito (firmato dallo stilista sardo Paolo Isoni) alle luci che vestono la cavea, la monotonia dei gesti (le braccia in alto, la mano sul fianco, i giri su se stessa sembrano un rifugio nel linguaggio del suo cinema e della sua televisione), la voce incerta tra il registro ironico (a Medea semmai si addice il sarcastico) e quello drammatico propongono una demitizzazione del personaggio dell’efferata maga della Colchide sproporzionata anche di fronte a ogni legittima e benvenuta attualizzazione del mito.
Più Lisistrata che Medea, l’euripidea Lunetta Savino esplode in due momenti, davvero viscerali: nel racconto della morte della promessa sposa di Giasone e quando simula l’innalzarsi sul carro del Sole dalla prima gradinata della cavea. Lì la voce riempie il teatro consegnando Medea alla Savino. Una recitazione in crescendo che le belle musiche della pianista Rita Marcotulli avevano già annunciato in apertura di spettacolo. Le partiture scritte per “Da Medea a Medea” offrono un calzante tappeto sonoro: nel brano d’apertura le note vellutate fino al crescendo jazzistico anticipano l’evoluzione del personaggio e ne svelano la chiave di lettura mentre l’ultimo intervento musicale scivola verso un accenno alla sonorità da avanspettacolo di “Io cerco la Titina”, omaggio al grammelot di Gabriella Ferri e anticipazione della storpiatura morale e linguistica della Medea di Tarantino. Un cameo è poi il rap che rende ragione dei dialoghi sincopati del testo di Euripide. Nella seconda parte tace il pianoforte, Lunetta Savino seduta su un baule e con le valigie ai piedi, l’abito accorciato e i capelli in disordine si prende la scena, il personaggio e gli applausi lunghi del pubblico.