Seguo con un misto di ironia e di intima sofferenza il dibattito sulla prossima ventura riapertura delle scuole a settembre. Fra tanti interventi, ora accorati, ora retorici, ora altezzosi nei confronti degli insegnanti, mi sono fatto tre idee, che sarà difficile farmi cambiare.
Parcheggio prole
La prima è che funzione basilare della scuola non è, nel comune sentire degli italiani, istruire o educare, concetti diversi ma che non si escludono a vicenda, visto che la rigorosa disciplina della consecutio temporum in un ginnasio, o dell’“aggiustaggio”, nei vecchi professionali, aveva anche una valenza formativa del carattere. La scuola è, per la maggior parte delle famiglie, l’istituzione cui consegnare i propri figli nell’orario di lavoro, meglio se ancora più a lungo. La maestra, ma anche la professoressa o il professore, almeno fino alla terza media è percepita come una baby sitter gratuita, che consente a entrambi i coniugi di lavorare affrancandosi dalla custodia della prole. Di qui la crescente richiesta del tempo pieno, che non ha serie motivazioni pedagogiche, costringe i bambini a una convivenza forzata, in molti casi anche di nove ore, calcolando il tempo trascorso nello scuolabus, ma fa comodo alle famiglie. Famiglie che hanno le loro ragioni, visto che il lavoro sta diventando sempre più logorante e pervasivo, che le nonne del post-Fornero lavorano anch’esse e che due stipendi non bastano come un tempo a consentire un aiuto domestico a pagamento. Il “confino da pandemia” ha sconvolto questo quadro e forse molti genitori hanno capito che fare l’insegnante non è una sine cura, come avevano creduto in precedenza; ma ora la prospettiva delle scuole chiuse a settembre ripropone l’antico interrogativo: a chi lascio mio figlio?
Edilizia scolastica inadeguata
La seconda considerazione è che l’emergenza coronavirus ha fatto emergere la vergognosa inadeguatezza della nostra edilizia scolastica, o meglio dell’edilizia scolastica realizzata a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Quanti hanno in passato deriso il monumentalismo dell’architettura fascista, le scuole con grandi corridoi, vasti giardini, aule con ampie cubature, grandi finestre per far passare la benefica luce del sole, si sono dovuti ricredere. Gli unici istituti in grado di ospitare gli alunni rispettando il cosiddetto distanziamento sociale sono quelli costruiti negli anni Venti e Trenta, insieme ad alcuni edifici realizzati in età giolittiana o negli anni Cinquanta, quando la Tbc era un nemico in agguato e al tempo stesso permaneva un alto concetto della scuola e dell’insegnante.
L’impossibile distanziamento
Dal dibattito sulla riapertura delle scuole emerge però una terza considerazione, forse la più amara. Questi ministri, provveditori, presidi (pardon, dirigenti scolastici: così volle Berlinguer) trasformatisi in agrimensori intenti a misurare il distanziamento dei banchi mi fanno un po’ sorridere, perché nessuno ha il coraggio di dire la verità. Una verità che chiunque abbia esperienza d’insegnamento conosce.
Si possono distanziare i banchi, rigorosamente singoli quanto si vuole, anche di due metri, ma i bambini, i fanciulli, gli adolescenti difficilmente rimarranno fermi al loro posto per quattro, cinque o più ore. Per capirlo basta guardare come si comportano i bambini al ristorante, correndo da un tavolo all’altro, o i ragazzotti della movida il venerdì o il sabato sera. Agli insegnanti si delegherà un compito insostenibile, gravandoli di responsabilità amministrative e penali, perché ci sarà sempre, da un lato, un genitore pronto a fare causa se suo figlio è rimasto contagiato, dall’altro ce ne sarà un altro dalla denuncia facile alla maestra che tenta di contenere l’esuberanza dei bambini. I tempi in cui l’insegnante teneva al loro posto quaranta alunni con una bacchetta che non serviva solo a indicare i confini dell’Italia sulla carta geografica sono tramontati da un pezzo. È bene che sia così; purtroppo però al tempo in cui il bambino aveva paura del maestro si sono sostituiti quelli in cui è l’insegnante ad avere paura degli alunni e dei genitori.
Questo non è certo un buon motivo per tenere le scuole chiuse a tempo indeterminato; il dibattito sul rientro a settembre potrebbe costituire però l’occasione per ripensare il nostro approccio alla scuola e all’insegnamento, troppo a lungo declassato ad ancillare surrogato della famiglia. Si riaprano pure le scuole, con tutte le cautele del caso, ma con la consapevolezza che per azzerare i rischi non basteranno né il distanziometro né le mascherine.