C’era una volta il Giornale. Tra la metà del 1974 e l’inizio del 1994, era un un quotidiano per classi alte. Lungo il ventennio di Guerra fredda e post Guerra fredda, ci scrissero Anthony Burgess e François Fejtő , Guido Piovene e Giovanni Arpino, Enzo Bettiza e Alberto Pasolini Zanelli, Gianni Brera e Vintila Horia, Carlo Fabrizio Carli e Carlo Ludovico Ragghianti, Renzo De Felice e Rosario Romeo, Antonietta Ledda e Mario Praz, Egisto Corradi e Leopoldo Sofisti, Giovanni Cavallotti e Antioco Lostia, Sergio Saviane e Nicola Crocetti, Franco Cardini e Carlo Laurenzi, Remo Cantoni e Maria Brunelli, Sergio Ricossa e Giorgio Blais, Gualtiero Jacopetti e Vincenzo Cerami.
Scomparso ieri, Cerami era stato una delle ultime grandi firme a varcare il portone di via Gaetano Negri a Milano. Arrivò a il Giornale verso il 1990: aveva già scritto il romanzo che l’aveva imposto, Un borghese piccolo piccolo (Garzanti, 1976), e anche dopo che esso era diventato un film dei più belli, da Cerami stesso sceneggiato e da Mario Monicelli diretto (1979). E un film dei più ambigui: scritto da uno di sinistra, aveva colto l’odio di classe di certa destra come gli autori di destra non sapevano fare. Non aveva ancora sceneggiato, invece, La vita è bella di Roberto Benigni.
Vidi Cerami per la prima volta in redazione. Entrando nell’ufficio della cultura de il Giornale, questo cinquantenne – allora – imponente riempiva il varco della porta. Nelle intenzioni di Sandra Artom, il capo-servizio che l’aveva reclutato, Cerami doveva colmare il vuoto apertosi prima con la scomparsa di Piovene, poi con quella di Arpino, infine con quella di Leonardo Sciascia, morto mentre stava per lasciare La Stampa e passare a il Giornale.
La differenza rispetto a loro era che Cerami scriveva romanzi, ma aveva una cifra personale più giornalistica (veniva dal Messaggero) e cinematografica, come Jacopetti, ma con vent’anni di meno e un’estrazione sociale diversa. L’assenza di pose da letterato mi rendeva simpatico Cerami. E poi Un borghese piccolo piccolo aveva una visione diagonale del mondo che cercavo anch’io. Ma il Giornale, anche quello “di Montanelli”, non era una vera vetrina per celebrità: le copie vendute erano meno di centomila e il rispetto che si era creato in certi ambienti era largamente controbilanciato dall’ostilità in altri: il Pci aveva infatti diffuso in ogni ambito colto o sedicente tale (atenei, case editrici, redazioni di ogni quotidiano importante, nascenti tg berlusconiani…) un rancore mai estintosi contro il quotidiano nato per ostacolare il compromesso storico. E che non c’era riuscito più di tanto. Il Giornale era riuscito invece perfettamente a favorire la scissione – per conto di Amintore Fanfani – di Democrazia nazionale dal Movimento sociale… Il futuro sarebbe stato coerente con le premesse. A un Montanelli senescente si sovrapponeva nei primi anni ’90 un Berlusconi già incontenibile. Quindi Cerami riprese la sua strada, senza rimpianti.
La vita è bella (1997) lo riportò in auge con la sua nomination all’Oscar per la sceneggiatura e i tre Oscar complessivi vinti dal film. Del quale tutti si erano sentiti in dovere di scriver bene. Io no e Giuliano Ferrara nemmeno. Si seppe poi che lo spunto a Benigni per una commedia nel dramma era venuto dal regista di Train de vie (1998), Radu Mihaileanu. Ma di quell’appropriazione Cerami non era responsabile. E poi la storia del cinema è fatta di idee copiate o rubate. E non solo quella del cinema. Ma un altro sceneggiatore che non fosse stato Cerami si sarebbe risentito verso il critico che ero io, perché era già cominciata l’epoca nella quale il cinema italiano considerava “coloristi” e critici una sorta di pròtesi dell’ufficio stampa. E se tali venivano considerati certi giornalisti, era per qualche concreto motivo di dipendenza economica.
Quando ho incontrato di nuovo Cerami, erano passati vent’anni dalla prima volta. Benigni aveva cercato di riproporre con la trovata della Vita è bella in un altro contesto di strage, l’Irak invaso, ma con La tigre e la neve (2005) non gli era andata altrettanto bene, perché i morti delle varie guerre non sono tutti uguali. E io sentivo l’ombra della fine (professionale) allungarsi, perché il Giornale non aveva quasi più nulla del quotidiano per le classi alte che era stato. Un critico serviva sempre meno. Ma in fondo sia Cerami, sia io avevamo vissuto meglio di quanto avrebbero immaginato i nostri professori delle scuole medie (lui aveva avuto Pier Paolo Pasolini, col quale aveva poi esordito nel cinema). Così ci rivedemmo nel posto meno immaginabile per due che non giocavano proprio a nulla, nemmeno a briscola. Eravamo infatti a Monte Carlo, grazie al Festival ideato da Ezio Greggio e dedicato al cinema di commedia. Vincenzo era presidente della giuria, io ero uno dei giurati. Per Monte Carlo, novembre è un mese da far passare. Ma c’era lo stesso il sole, quello che accarezza solo chi può infischiarsene delle stagioni per viaggiare. In una tarda mattina percorremmo l’esigua area urbana, tra lo sperone di roccia dell’hotel Fairmont e la libreria della Fnac, tra il Circolo degli espatriati e la fila di concessionari di Rolls-Royce e Bentley, Ferrari e Lotus ecc., scendendo dal casinò e risalendo fino all’acquario per una visita densa di ricordi di Mimsy Farmer (prima moglie di Vincenzo) e di altre dee, per lo più marine; del declino della stampa e del declino nazionale nell’ambito di quello europeo; ma anche di come le foto del principe Alberto fossero esposte in ogni portineria, come si usa per i sovrani orientali. Solo che lì eravamo a 20 km da Nizza.
Restammo d’accordo che ci saremmo rivisti a Spoleto, dove Vincenzo era assessore alla cultura in quota Pd, per presentare un libro insieme. Lo andai ancora a trovare a Roma: fu un dialogo dove, consensualmente, si evitava tanto il tema di un futuro breve quanto il ricordo di un passato lungo. Avevamo visto troppi film dove uomini maturi al tramonto cercano di intercettare un bagliore. Non dovevamo sempre presentare insieme il famoso libro a Spoleto? E, soprattutto, dovevamo ancora mettere le braghe al mondo. Senza Vincenzo sarà triste farlo.