La rivoluzione fiumana durò cinquecento giorni. E fu una rivoluzione libertaria che non preparò – come molti dissero e sostengono ancora – l’avvento del fascismo, pur preconizzando uno Stato nuovo, né sconfisse il bolscevismo (non ve n’era bisogno) che pur s’acquattava nelle pieghe dell’insolenza nittiana e giolittiana. Il Comandante, reggitore del libero Stato di Fiume, il Costituente che anticipò con la Carta del Carnaro un nuovo modo di concepire la Grande Norma e le costituzioni moderne, era un poeta, un soldato, un agitatore, uno spirito libero ed eccentrico, il solo che poteva mettersi alla testa di una compagnia di ventura, la più nobile che si sia vista dal XVI secolo ed inquadrarla come un esercito vero e proprio tra avventurieri, letterati, fuggiaschi, futuristi, arditi, ex-combattenti, puttane e signore in cerca di brividi ammaliate dal carisma del Vate.
Una “festa della Rivoluzione”, secondo la definizione di Claudia Salaris, autrice di uno dei libri più intensi e suggestivi sulla vicenda fiumana, il cui obiettivo era quello stare a guardia della Vittoria Mutilata, sorvegliare le porcherie degli ex-alleati, opporsi alle ruberie territoriali degli stessi. Tutti i “fiumani” sognavano un ordine nuovo ed erano acerrimi nemici dei politicanti versi pelle non meno dei generali felloni. Si dichiaravano disposti a tutto, dal crimine all’eroismo, pur di ridare all’Italia quel lembo di terra sottratto da pseudo-statisti disonesti, ligi alla religione del compromesso. Perciò, come scrisse Giovanni Host-Venturi, uno dei collaboratori più vicini a Gabriele d’Annunzio insieme con Guido Keller e con il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, si poneva “la necessità di un’azione energica e di soluzioni nuove e rispondenti”. L’impresa dannunziana “stimolò quanti sentivano l’ansia di quelle ore difficili”. Ed esplicitò il senso dell’impresa aggiungendo: “La Marcia di Ronchi fu priva di qualsiasi contenuto politico di parte, di velleità di predomini di caste o di classi, di esasperazioni nazionalistiche, in quanto affatto si trattò di aspirazioni territoriali di conquista, ma della difesa di un democraticissimo principio: – l’autodecisione dei popoli – diritto solennissimamente proclamato dai nostri alleati, da Wilson, a Clemenceau, a Lloyd George, quale insegna e scopo di tutta la ‘guerra liberatrice’, diritto poi negato” (L’impresa fiumana, Aspis Edizioni). Fiume fu il “principato” assoluto di d’Annunzio. E di questi giorni, un secolo fa, l’effervescente vita politica, artistica, intellettuale e “ribelle” celebrava sulle rive del Quarnaro i propri trionfi inaugurati il 12 settembre 1919 e spentisi nel Natale di Sangue dell’anno successivo.
È questo, dunque, il secolo “postumo” di d’Annunzio nel quale se le stelle non danzano come cento anni fa, la memoria rincorre un’epica non dimenticata, come ricordano libri, ricerche, ricordi, a cominciare da quelle di Host-Venturi appena citato, passando per innumerevoli pubblicazioni ed in particolare una scintillante e completa biografia di Maurizio Serra: L’immaginifico. Vita di Gabriele d’Annunzio (Neri Pozza), le memorie di Guido Keller, Ala=Pensiero e Azione (Giubilei Regnani), le considerazioni di Alceste De Ambris, La questione di Fiume (Idrovolante edizioni), i romanzi di Mario Carli (il più fiumano degli scrittori) ed il Poema di Fiume (Eclettica) di Filippo Tommaso Marinetti, solo per citarne qualcuno.
Un condottiero, un letterato, un politico sui generis d’Annunzio? Tutto questo e forse niente di questo. Nel Libro segreto annotò, interrogandosi su se stesso: “Sono una sostanza umana e una pura volontà di arte?” La domanda, alla quale non diede risposta, la storia della cultura italiana se l’è portata dietro fino ad oggi e, nel centenario dell’Impresa fiumana, a ottantadue anni dalla morte del Poeta, ancora non si riesce a dare una risposta, nonostante i molti studi a lui dedicati. L’enigma di d’Annunzio è forse tutto racchiuso in questo intrigante interrogativo che costituisce poi, in buona sostanza, la “radiografia” del personaggio, dello scrittore, del combattente, del politico.
Possiamo dire che il capolavoro esistenziale di d’Annunzio fu quello di far coincidere la sua “sostanza umana” con la “volontà di arte” che lo dominava. E così anche in politica, da lui considerata come uno degli aspetti per esprimere una certa incarnata vitalità. L’uomo d’Annunzio segnò, in circostanze eccezionali, scandite dal tramonto di un secolo e dalla nascita di quello nuovo, gravido di epocali rivoluzioni, la riapparizione della grande arte e della grane politica, ridisegnando per i suoi contemporanei e per la nostra storia nazionale nuovi esaltanti scenari nei quali, da “postumi” quali siamo, possiamo scorgere i caratteri fondamentali che nel tempo di d’Annunzio hanno unito la grande arte e la grande politica in una sorta di “ordine lirico”, i cui caratteri principali sono la forza, la volontà, la potenza, il coraggio, la generosità. I caratteri dell’Eroe, insomma, avrebbe detto Thomas Carlyle che segnano il combattente (e d’Annunzio lo fu) e il costruttore (non di meno l’avventura di Fiume, anche giuridicamente, lo testimonia).
Come soldato sulla linea del fuoco e per i cieli d’Europa, d’Annunzio non ebbe mai quale obiettivo il riposo alla propria inquietudine, ma trovò piuttosto la sua specifica dimensione in una filosofia attivistica che incarnò prima prendendo parte, non solo intellettualmente, al conflitto mondiale legando il suo nome soprattutto al volo su Vienna e alla beffa di Buccari. E poi realizzando il secondo grande atto rivoluzionario della storia europea del Novecento, dopo la rivoluzione bolscevica del 1917, con la conquista di Fiume. Qui, in questa avventurosa cavalcata tra arte e politica, dissacrazione e trasgressione, disordine sociale ed ordine spirituale, d’Annunzio, affiancato dal geniale sindacalista rivoluzionario, Alceste de Ambris, amico di Filippo Corridoni, interventista e teorico di un socialismo innovatore, scrisse quella che Giuseppe Marini considerava la Costituzione più moderna europea. Con d’Annunzio vi fu perfetta intesa, uniti non soltanto nella redazione della Costituzione fiumana, ma nello spirito legionario che ne fu a fondamento, per cui le parole pronunciate dal Comandante il 31 agosto 1920, rivolte ai suoi compagni d’arme per presentare la Carta del Quarnaro, in maniera particolare possono considerarsi indirizzate all’artefice della prima moderna Carta dei diritti e dei doveri del Novecento. “In mezzo a questo campo trincerato- disse d’Annunzio- noi abbiamo posto le fondamenta d’una città di vita, d’una città novissima. E abbiamo conciato le pietre e abbiamo squadrato le travi per la costruzione robusta. Qui, in questo breve libro, è il disegno della vostra architettura, è il lineamento del vostro edifizio. Voi avete posto mano a queste pagine. Queste pagine sono vostre. Umilmente io immagino che le abbia scritte il vostro spirito con una penna d’aquila, tagliata e aguzzata dal filo della vostra spada corta, dal filo di quella spada che è cinta dai armi dei lauro e di quercia per vostro emblema. Non siete voi, miei compagni d’arme e d’anima, non siete voi che, misti al popolo schietto, nella libertà dell’arengo, avete sprigionato l’amore sagace dai cuori più duri e più miserabili? Colui che ha un solo occhio ha veduto per tutti gli altri occhi; e tutti gli altri occhi hanno veduto per quell’occhio solo. E colui che è il compagno di tutti ha fatto a sua somiglianza compagni innumerevoli. E il nome di compagno s’è rinnovellato come un virgulto che fiorisca e fogli; s’è candidato d’innocenza; è ridivenuto più dolce e la più forte parola del linguaggio umano, una parola di comunione e una parola di coraggio, un legame dell’attimo e un suggello d’eternità”.
Fu poi d’Annunzio a rendere la Carta del Quarnaro una Costituzione “lirica”, ma giuridicamente corretta, senza mutarne l’impianto deambrisiano, bensì rendendola coerente con lo spirito della rivoluzione che aveva condotto.
L’ordine “lirico” a cui d’Annunzio informò la propria esistenza traeva origine sia da una particolare equazione personale che dall’influenza delle dottrine vitalistiche ed irrazionalistiche che soprattutto in Francia, durante il dorato esilio di Arcachon, volle approfondire, affascinato dall’élan vitale che poneva nell’azione il fondamento dell’esistenza.
Per questa via maturò quella libertà di spirito, mutuata soprattutto da Nietzsche, che trasfuse nella sua concezione del soldato il quale per lui era l’eroe nel senso proprio del termine, che si manifesta come “l’apparizione improvvisa di una forza generatrice che, invisibile, ma veggente, ferve nella profondità della moltitudine”. Fu questa verità a spingere giovani come Comisso, Host-Venturi, Guido Keller, Leone Kochnitzsky, Henry Furst, Giuseppe Maranini, Mario Carli, solo per citarne qualcuno, a seguire il Poeta a Fiume, impresa che non aveva soltanto i connotati di un’azione politica, ma quelli più profondi di una rivolta generazionale il cui fine sarebbe stato quello di promuovere “l’ascesi collettiva verso un universale regno dello spirito”.
Il “campo dannunziano”, dunque, al di là delle molte esemplificazioni che si potrebbero addurre, è e resta quello che potremmo definire “sovrumanista”. E proprio in ossequio ad un “sovrumanismo” intimamente vissuto come arte e come azione, d’Annunzio fece dell’impegno bellico uno stile di vita circondato di simboli e riti.
Mario Carli, quasi per esplicitare inconsapevolmente questa concezione, riassunse su “Roma futurista” la prospettiva estetica e politica dannunziana e dei dannunziani: “Volontarismo. Sdegno del tran-tran mediocre, in cui non si rischia né si guadagna troppo. Passione per l’emozione, per il pericolo, per la lotta… Intellettualità assetata di gloria, generosità capace di un’estetica raffinata… Eleganza di un gesto primitivo, infantile, subito dopo un gesto di carattere, di muscoli, di fede, di coraggio, di sangue, di cervello”.
La vita, dunque, per d’Annunzio, è affermazione di una volontà di potenza da contrapporre alle altrui debolezze, allo spirito di rinuncia. La coscienza si nutre di questo entusiasmo per osare ciò che nessuno ha il coraggio di osare. Bisogna percorrere sentieri impervi e difficili per dare all’uomo il senso della propria dimensione. Se è possibile vivendo al di là del bene e del male.
Il mito della volontà, nelle mani di d’Annunzio, si fece politica e quello della forza, azione. Egli trasse dall’esperienza intellettuale europea di fine Ottocento tutti i succhi che potevano portare alla ridefinizione di nuovi schemi politici: i miti volontaristici ebbero una parte preponderante. E Fiume ne fu l’esempio concreto.
Sicché la vicenda della Città Olocausta, presa con viltà e spregio delle regole al governo italiano per assecondare le potenze straniere, resta un esempio non certo da imitare, ma al quale guardare come “rivoluzione culturale” prima che politica e militare, nella quale si tennero molte tendenze, dando luogo a nuove sintesi che vennero poi trasfuse nelle trasformazioni del decennio successivo. E delle quali, non a caso si discute ancora oggi.
Dal settembre del 2019 e credibilmente fino alla fine di quest’anno, la riflessione su d’Annunzio continuerà e ci si appassionerà ad una visione della politica come arte che fece dire a Lenin, indirizzandosi al Poeta, di guardare con ammirazione alla sua impresa poiché “avete fatto fiorire il cardo bolscevico in rosa italiana”.
Oggi non è il tempo delle grandi sintesi. Ma disconoscerle sarebbe ingiusto e culturalmente da ciechi. Il fascino del Comandante è integro: e vuol dire qualcosa. Il Vittoriale dove riposta in un’Arca al centro delle arche nelle quali sono custodite le spoglie dei suoi fedelissimi, attraggono visitatori da tutto il mondo come mai prima. Il marmo di quel monumento può anche ingrigire, ma la storia è fatta di un metallo che non conosce l’usura del tempo, né il dileggio dell’oblio. Perciò il “secolo di d’Annunzio” è più attuale di quanto si creda e nelle pieghe della sua rivoluzione lirica e politica, in quell’avventura scapigliata ed eroica, in quel profumo d’amore che inondava le strade di Fiume, c’è un bel po’ della nascita della nuova Italia. E non è possibile disconoscerlo.
info@barbadillo.it
Fiume fu l’espressione e la realizzazione del Fascismo diciannovista; i Fasci di combattimento sorti qualche mese prima dell’occupazione, praticamente si sciolsero ,in quanto quasi tutti i loro componenti partirono per Fiume. Alceste de Ambris (che col socialismo c’entrava molto poco) era il primo ideologo dei Fasci di combattimento, un po’ come Nicola Bombacci fu il vero ideologo della Rsi.La rottura tra molti fascisti diciannovisti (tra cui De Ambris) e Mussolini nacque proprio per gli accordi sottobanco che il futuro Duce fece con Giolitti.
Essendo fiumano per nascita e dannunziano per devozione – con l’ Impresa del Comandante , Fiume resterà nella sua accezione italica per sempre in tutti i libri di Storia annullando lo sconcio croato dell’attuale “rjeka” – ringrazio Malgieri per l’ottimo articolo .
Semmai espressione del velleitarismo e delle contraddizioni di un certo pasticcione “fascismo diciannovista”, che Mussolini, abile politico, infatti cestinò subito…
Semmai de Ambris aveva a che fare con una personalissima interpretazione di fascismo prêt-à-porter : quello che mai avrebbe preso il potere e sarebbe rimasto , un po’ come la Falange di Primo de Rivera, un gruppuscolo nettamente minoritario. La politica si fa per aggregazioni aperte e per realismi, non per purismi isolazionisti ed autarchici…
Bombacci non rappresenta nulla nella RSI. Un uomo sbagliato, un isolato, nel posto sbagliato.
No, ma quale “Rivoluzione fiumana”… Fu un happening borghese, intriso di retorica decadente dannunziana, contro le ”convenzioni’, il trionfo dell’italica propensione radical-chic al casino… Infatti molti ‘fiumani’, come Rossi Passavanti, vista l’aria da bordello che tirava, fecero le valigie. In un bordello si possono fare parecchie cose, tranne che rivoluzioni ed eroismi per l’italianità…
La vera rivoluzione in Italia sarebbe la “serietà” non lo sterile ribellismo goliardico, da frequentatore di “Case Chiuse” …