Sono passati dieci anni da quando Il Riformista pubblicò una lettera inedita di Oriana Fallaci nella quale si leggeva: «A me non pare che Gentile fosse fascista […] non più dei comunisti che, quando negli anni Trenta mio padre […] non era iscritto al PNF e faceva il “sovversivo”, sventolavan la tessera» [1]. Un’affermazione forte, come molte altre della scrittrice e giornalista fiorentina che induce oggi a qualche riflessione.
Una cosa è certa: fu l’idea di un’«Italia morale, con una reale ed energica coscienza nazionale» [2] la bussola che orientò l’esistenza di Giovanni Gentile. Una convinzione profonda, maturata ben prima dell’avvento del Regime e sul cui altare il filosofo consacrò vita e azione. Gentile era Gentile prima del fascismo: già professore di filosofia a Campobasso (1897) e Napoli (1900), apprezzato docente universitario a Palermo (1906) dove i giovani lo amavano e «si affollavano alle sue lezioni» [3]. Negli anni della Grande Guerra insegnò negli Atenei di Pisa e Roma forte dei titoli che vantava come filosofo e storico che lo avevano fatto conoscere anche oltre i confini italici.
Il rapporto con il regime fascista
Il rapporto col Regime divenne prima stretto e poi strettissimo, certo. Ma a ben studiarlo alcune precisazioni paiono opportune.
Per l’efficacia delle sue idee e l’efficienza nel sostenerle Gentile non ebbe bisogno dei favori del Pnf per “fare carriera”. Anzi, sul piano culturale il saldo complessivo è negativo visto che fu molto più ciò che diede lui al fascismo di quanto ne ricevette: «negli anni tra il ’22 e il ’29 la cultura gentiliana ha assicurato la continuità tra il fascismo e la vecchia tradizione della consacrazione hegeliana del liberalismo risorgimentale: continuità di cui il fascismo aveva bisogno per inserirsi nella classe dirigente […] furono l’attualismo e la sua prospettiva sulla storia del Risorgimento a permettere al fascismo quell’inserimento nella tradizione, senza la quale nessuna linea politica può resistere» [4].
Una “tradizione” intesa come la forza e il fondamento morale di una coscienza nazionale, non più, dunque nel senso riduttivo di un passato glorioso ma tramontato: traditio come vivo presente, operante nell’attualità dello spirito consapevole di sé, della sua forza, del suo destino. Per Gentile l’Italia non avrebbe più dovuto essere solo «il paese del Grand Tour, quella espressione geografica divisa ed asservita allo straniero, sì bacino inestimabile di arte e cultura, ma incapace di esprimere una volontà unitaria e di dire la sua nel mondo, che subisce il corso degli eventi senza in alcun modo concorrere a determinarlo» [5], ma una nazione mossa da una forza che si proietta nell’avvenire, che assurge a progetto, a missione: il tentativo di formare la Nazione intesa come «autocoscienza del popolo italiano, come consapevolezza della sua unità, della sua vera natura, del suo destino» [6].
Un desiderio di concretezza che non a caso fa ritrovare Gentile al centro del progetto de La Nuova Politica Liberale, un periodico che uscì nel gennaio 1923 – promosso anche da Gioacchino Volpe, Benedetto Croce, Carmelo Licitra e Giuseppe Lombardo Radice – il cui manifesto politico-culturale fu ben riassunto da Adolfo Omodeo: «Riprendere la tradizione liberale del nostro Risorgimento, smarritasi nell’evoluzione democratica dell’ultimo cinquantennio, e dando pieno sviluppo ai suoi presupposti idealistici, inserirsi fattivamente nel presente problema politico d’Italia. In sostanza non una pigra affermazione di tutte le libertà sino al suicidio della libertà, ma la libertà come metodo perenne di politica» [7].
L’idea gentiliana della Storia
Nell’idea gentiliana della Storia il fascismo rappresentava un’occasione irripetibile, un evento in grado di rappresentare «il compimento ultimo e definitivo del grande moto risorgimentale, l’unico possibile inveramento del liberalismo e quindi la logica conclusione di tutta la storia nazionale» [8]. Per questo si convinse del fatto che solo il fascismo avrebbe potuto costruire «lo Stato degli italiani perché il fascismo era l’Italia, era anzi la migliore espressione degli italiani» [9], l’unica in grado di superare «la cultura giacobina, materialista, massonica di derivazione razionalista-illuminista e promuovere invece la formazione di un carattere nazionale consapevole della propria missione e conseguenza di un libero volere etico. Lo Stato non avrebbe dovuto essere opera di machiavelliana astuzia, ma istituzione legittimata dall’esistenza della Nazione e, contro ogni riduzione materialistica, espressione dell’iniziativa dell’uomo, della sua forza di volontà, del suo impegno etico. […] Era questa la profezia a cui avevano consacrato la propria vita Gioberti, Mazzini e tanti altri e che non s’era realizzata né con la conquista di Roma né con la vittoria di Vittorio Veneto» [10].
Al Regime Gentile arrivò coerentemente da critico severo sia del pacifismo wilsoniano sia dei principi ispiratori della Società delle Nazioni [11], in un “reciproco conforto” e in ossequio al suo essere stato «per tanta parte uomo del Risorgimento, sensibile alle esigenze del moto culturale che aveva animato l’unificazione nazionale» [12] e, soprattutto, in virtù del suo antigiolittismo. In tal senso, egli superò la definizione salveminiana [13] – con la quale pure concordava, considerando il «giolittismo […] la malattia da cui la guerra avrebbe guarito l’Italia» [14] – di quel momento di storia politica italiana elevando la sua critica anche sul piano storiografico e filosofico. Egli si mosse dal disordine edificato dal sistema giolittiano e dalla sua «naturale conversione del liberalismo in democrazia demagogica» [15], e di quella del «governo della borghesia» trasformatosi in «governo degli affaristi» [16]. Il rigetto di tale deriva da parte di Gentile era netto: era inaccettabile ai suoi occhi il governo di basso profilo inaugurato da Giolitti che aveva ridotto la politica in «routine amministrativa, a tattica di mediazione per la mediazione tra particolari interessi di ceto, di categoria, di consorteria, dalla quale restavano esclusi comparti fondamentali della vita nazionale» [17].
Per Gentile, dopo il grigio decennio giolittiano, era necessario tornare nel solco della memoria nazionale, ai momenti più nobili della grande politica, agli ideali risorgimentali, insomma, realizzare uno Stato forte che solo e l’incontro tra liberalismo e fascismo poteva garantire portando «un senso di misura e di determinatezza politica, cioè di concretezza sociale e storica nello sviluppo etico-religioso dell’individuo» [18].
Aristocrazia e moralità pubblica
Era quindi necessario dare forza e credibilità a quella «specie di aristocrazia intellettuale anelante a più alta moralità pubblica, a più nette disposizioni ideali, a più fecondi contrasti, a più energici atteggiamenti di politica estera, rispondenti alle cresciute energie e possibilità del paese» [19]. Un’élite che Gentile individuava nella corrente minoritaria nel liberalismo risorgimentale che «con caratteri propri» si distinse dalle altre poiché «informata al grado più elevato della cultura contemporanea» e che fece «vera politica» in quanto «schiettamente italiana». A differenza di quanto accadde proprio nell’Italia giolittiana, «lungo periodo della democrazia a caratteri sociologici più che politici» rappresentando – e al contempo determinando – «una decadenza nello sviluppo della vita nazionale» [20].
L’hegelismo italiano, d’altra parte, da «De Sanctis a Gentile, predisponeva l’interpretazione del fascismo come continuazione culturale del Risorgimento» [21] poiché nel primo era ravvisabile un’«intuizione estremamente notevole: al di sotto della realtà delle classi, c’è un’altra realtà più profonda, che il comunismo ha ignorato: la realtà delle nazioni […] ripensata da Mussolini secondo le categorie del socialismo rivoluzionario in cui era cresciuto» [22]. Questa dunque la premessa ineludibile dell’incontro tra «il socialismo rivoluzionario romagnolo e l’hegelismo napoletano» [23] rispettivamente incarnati da Mussolini e Gentile. Non certo l’opportunismo politico, dunque, favorì questo incontro che, non a caso, si spiega solo indagando sul «momento culturale del fascismo» [24] evidenziando in tal senso che «Gentile aveva bisogno del fascismo perché assumesse parvenza di verità la sua formula sulla identità del pensiero e dell’azione; reciprocamente il fascismo aveva bisogno di una legittimazione culturale, e non poteva cercarla che nell’attualismo anche se questo non fosse entrato per nulla nella sua genesi» [25].
La questione cambia se dall’elaborazione teorica si passa alle mere questioni di titoli. Gentile non ebbe bisogno dell’appoggio del regime per ricoprire cariche alle quali il suo spessore lo avrebbe certamente portato. Tra l’altro, fu Croce a suggerire al Duce di inserire Gentile nell’esecutivo [26]: l’unica scelta consona per superare l’immobilismo parlamentare sulla scuola e incassando anche il plauso dei Popolari e di illustri intellettuali come Fortunato Pintor, felicemente colpito dal fatto che finalmente: «un capo di governo» avesse mostrato dopo la mala gestione giolittiana «di sapere mettere gli uomini al loro posto» [27].
Una volta ai vertici della vita culturale nazionale Gentile si tenne ben lontano dalla gestione clientelistica delle cattedre universitarie e delle logiche territoriali, clientelari e campanilistiche di quanti consideravano i centri di potere «patrimonio di famiglia da amministrarsi secondo i criteri del maggior tornaconto personale» [28].
La coerenza di Gentile è rinvenibile proprio in questo: fedeltà alla tradizione che aveva fatto l’Italia, al sentimento della serietà religiosa della vita in cui egli aveva trovato il più nobile insegnamento dei profeti del Risorgimento – Dante, Mazzini, Gioberti su tutti –, la fedeltà, insomma, «al proprio passato di uomo, di educatore, di pensatore» [29]. Al contempo, oltre alla fede, la convinzione che, in caso contrario, l’Italia avrebbe vissuto un drammatico deja vu della disfatta di Caporetto: o sarebbe stata «destinata a morire per effetto d’una disfatta militare» o a sopravvivere in «un’accozzaglia di uomini, senza disciplina di sorta» [30].
Purtroppo, è noto, accadranno entrambe le cose.
Note
[1] Lettera di Oriana Fallaci a Chicco Testa, [luglio 2000], ora in O. Fallaci, Uccisero Gentile ma non tolsero le mine naziste, «Il Riformista», del 9 maggio 2010, p. 10.
[2] G. Gentile, Disciplina nazionale, in Id., Guerra e fede, Napoli, Ricciardi, 1919, p. 25.
[3] G. Saitta, «Humanitas» di Giovanni Gentile, in «Nuova Antologia», giugno 1944, pp. 82-83.
[4] A. Del Noce, Idee per l’interpretazione del fascismo, in «L’Ordine civile», del 15 aprile 1960.
[5] F. Maffei, La tradizione è missione. In memoria di Giovanni Gentile, in «Il Primato Nazionale», del 15 aprile 2018.
[6] F. Lamendola, Cos’è stato il Risorgimento, secondo Gentile?, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”, 16 maggio 2019.
[7] L’articolo di A. Omodeo, in «Giornale critico della Filosofia italiana», n. III, del 1922, p. 41.
[8] Cfr., G. Gentile, Prefazione a C. Licitra, Dal liberalismo al fascismo, Roma, De Alberti, 1925.
[9] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 154.
[10] G. Chiosso, L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Brescia, La Scuola, 1983, pp. 161-162.
[11] G. Gentile, La filosofia di Wilson, in Id., Dopo la vittoria, Roma, La Voce, 1920, pp. 120 e ss e Id., La Società delle Nazioni, in «Il Tempo», del 26 gennaio 1919.
[12] E. Garin, Introduzione a G. Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze, Le Lettere, 1991, p. XI.
[13] G. Salvemini, Il ministro della mala vita. Notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.
[14] G. Gentile, La crisi morale, in «Politica», del 15 ottobre 1919, in Id., Dopo la vittoria, Roma, La Voce, 1920, p. 73.
[15] Lettera di Gioacchino Volpe a Salvemini, s.d., s.l. [1913] in G. Salvemini, Carteggio, 1912-1914, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 128.
[16] A. Labriola, Storia di dieci anni, 1899-1909, Milano, Il Viandante, 1910, p. 227.
[17] E. Di Rienzo, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2006, p. 63.
[18] G. Gentile, Il mio liberalismo, in Id., Politica e cultura, Firenze, Le Lettere, 1990, vol. I, pp. 115-116.
[19] G. Volpe, Italia moderna, Firenze, Le Lettere, 2002, v. III, p. 274.
[20] C. Licitra, Dal Liberalismo al Fascismo, cit., pp. 41-42.
[21] P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, Firenze, Le Lettere, 2001, p. 398.
[22] A. Del Noce, Introduzione a Il problema dell’ateismo, Bologna, Il Mulino, 1964, p. CL.
[23] Ivi, p. CLI.
[24] R. De Felice, Fascismo, in «Il Nuovo Osservatore», del 16 novembre 1960, p. 39.
[25] A. Del Noce, Idee per l’interpretazione del fascismo, cit.
[26] M. Veneziani, L’Italia, quel pensiero dominante, introduzione a G. Gentile, Pensare l’Italia, Firenze, Le Lettere, 2014, p. 21.
[27] Lettera di Fortunato Pintor a Giovanni Gentile, del 3 novembre 1922, in Giovanni Gentile e il Senato. Carteggio, 1895-1944, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, p. 373.
[28] Lettera di Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, del 1 maggio 1909, in Archivio della Fondazione Gentile.
[29] B. Gentile, Giovanni Gentile. Dal Discorso agli italiani alla morte. 24 giugno 1943 – 15 aprile 1944, Roma, Senato della Repubblica, 2004, p. 15.
[30] G. Gentile, Esame di coscienza, del 15 dicembre 1917, in Id., Guerra e fede, cit. pp. 60 e ss.
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