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La provocazione. Cosa c’è da festeggiare ricordando l’operazione Husky del ’43?

by Marco Cimmino
16 Luglio 2013
in Cultura
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gelaMa quanto siamo fessi, noi Italiani? Qualcuno mai si è preso la briga di misurare, magari a spanne, il superlativo grado di fessaggine che felicita il nostro Paese?  Quello che per gli altri sarebbe abominevole indizio di ebefrenia autolesionista, per noi è la norma, la rasserenante prassi del quotidiano.

Immaginatevi i Franzosi che festeggiassero, con tanto di timballi, orifiamma e danzatrici, la disfida di Barletta: o gli Inglesi, che percorressero le strade della City, vestiti di ferro e stracci, per ricordare i fasti di Bannockburn. Dura da immaginare, vero? Il turista osserverebbe la bizzarra messinscena e si domanderebbe: ma cosa ci sarà da festeggiare, che ne hanno prese una sacca? Quel che lungo la Senna o il Tamigi apparirebbe pura follia, da noi si pratica: diventa, per così dire, un happening. Il 25 aprile, torme di garruli giovinetti e di stupende fanciulle si scaraventano per strada: non è la primavera in fiore che li chiama ad intrecciare carole, ma la gioia del ricordo dell’ultima batosta. Quella che ci costò un pezzettino di Liguria e di Piemonte, nonchè un pezzettone d’Istria e Venezia, tanto per capirci. Alla faccia della Liberazione! Uno dirà: sì, vabbè, però è finita la dittatura, insieme con la guerra. E, in questo, gli do ragione: Mussolini andò a remengo, con i suoi fidi. Ma festeggiare esplicitamente quella macelleria messicana sarebbe decisamente di cattivo gusto: senza contare che bisognerebbe festeggiarla qualche giorno dopo. In realtà, quello che si celebra il 25 aprile, al di là del solito pretesto per fare un po’ di chiasso, per sputare addosso al reprobo di turno e per piazzare qualche nuova tessera dell’Anpi, è il gusto, tutto italiano, della macerazione E’ la libidine del dopo rissa, in cui ci si leccano le ferite e si dice: ovvia, poteva andare peggio! Poteva piovere.

Così, adesso festeggiamo anche lo sbarco in Sicilia del luglio ’43. Cosa ci sia da festeggiare rimane un mistero, trattandosi di una discreta tragedia nazionale, ma non mettiamo limiti alla capacità festaiola delle pubbliche amministrazioni: dopo la sagra del pecorino di fossa e il festival del ballo del Qua-Qua, ci può anche stare la sacra rappresentazione dell’operazione “Husky”. Se non altro, in una stagione torrida su di un’isola torriderrima, il nome evoca scenari rinfrescanti: pinguini, giacconi col pelo, le slitte, il pack. Il punto chiave, di questa ordalia tra il serio ed il faceto, sta nella mancanza totale, da parte della gente, di un senso storico della propria esistenza. La vita non è sogno, come postulava Calderòn: la vita è semplice cazzeggio. Oggi, milioni di Italiani si indignano per l’espulsione della Kazaka o per la vicenda dei Marò, come ieri s’indignavano per le stragi o per le centrali nucleari: del pari, osservano compiaciuti l’esercizio di artistica libertà rappresentato dalla rievocazione festosa dello sbarco, e non capiscono che le cose sono strettamente legate, che “tout se tient”, insomma. Manca del tutto al nostro popolo il sentimento delle cose: l’idea che esistano cause che producono effetti. L’Italia vive in un perenne presente, ignara o dimentica del passato ed olimpicamente indifferente al futuro: meglio interrare la cabeza nella sabbia della battigia (il mussoliniano “bagnasciuga”) e via, alè, con i festeggiamenti! Gli Americani sbarcarono in Sicilia mercè i servizi dei mafiosi italoamericani, che spianarono loro la strada, facendo da tramite con i capibastone siciliani, che anche allora erano il vero governo dell’Isola. La mafia ne ricavò sempiterna gratitudine e legami profondissimi con i politicanti italici: chi festeggia il 9 luglio, sappia che festeggia anche il quarto livello. Perciò, eviti di protestare, contemporaneamente, per l’agenda rossa di Borsellino: il patto Stato-Mafia venne stipulato davanti alle spiagge di Gela, non nei penetrali romani o panormiti. O si festeggia o si protesta: tertium non datur. E fosse solo questo! La Penisola, ad onta di un referendum contro le centrali nucleari, che sembrava volerci liberare dall’incubo del disastro atomico, è piena di allegre basi statunitensi, che rigurgitano di ancor più allegre testate di ogni tipo e misura: devo spiegare estesamente quanto sia più pericoloso un incidente che riguardi una bomba atomica, rispetto a quello che interessi un reattore, o posso fidarmi dell’intuito del lettore? Il risultato di questo bell’ossimoro è, platealmente, l’averci tolto un’enorme risorsa energetica, costringendoci a dipendere da gas e petrolio, senza avere diminuito di una virgola il rischio dell’olocausto. Ma la causa è assai più interessante: la causa si chiama trattato di pace di Parigi. Quello per cui, anche se a noi piace far finta di aver vinto la guerra, siamo stati dichiarati vinti e stravinti e, come tali, passibili di infiniti ricatti e di infinite ingiunzioni: perchè ci teniamo le basi americane coi relativi missili? Semplice, perchè non possiamo cacciarli, via:  e adesso, sotto a festeggiare! Per lo stesso motivo, non possiamo far parte del consiglio di sicurezza dell’Onu: settant’anni sono troppo pochi per espiare, perciò ci toccherà festeggiare ancora a lungo, da membri di serie B delle Nazioni Unite. Lo stesso dicasi per la nostra sovranità in materia di politica estera: nonostante che il 99% delle iniziative di peacekeeping che è toccato mettere in piedi all’Italia, negli ultimi vent’anni, siano palesemente inutili, se non dannose, per la nostra politica internazionale, ci è toccato di farle. Ci costa una caterva di soldi, ci lasciano le penne i nostri soldati, e non possiamo vincerle, ma, al massimo, tenerle in stand-by: però, in compenso, servono ai vincitori di quel 9 luglio per difendere le rotte energetiche vitali per la loro economia e per tenere in piedi la propria industria militare. Certo, non è sempre andata così: nei decenni, l’estro italico si è manifestato e l’arte di arrangiarsi, anche in politica estera, è stata messa a profitto. Negli anni di piombo, ad esempio, la Farnesina sorrideva affettuosa ad Israele e si riempiva i polmoni di atlantismo, ma, poi, ballava il tango con la Libia e faceva accordi sottobanco con l’OLP. Avevamo, in pratica, due politiche estere parallele: anzi divergenti e parallele, tanto per parafrasare uno che, alla fine, l’ha pagata cara. Il botto di Bologna e, forse, quello di Ustica, probabilmente, sono da ascrivere proprio a quelle spregiudicate danze “entre oui et non”. Ma sulle questioni grosse, col cavolo che potevamo scantonare. E, a proposito di economia, è proprio in virtù delle conseguenze di quel meraviglioso mattino di luglio che ci tocca comprare 90 cacciabombardieri che non vuole nessuno, giacchè si è capito che sono un pacco, che costano tantissimo e che non ci servirebbero a nulla, date le necessità delle nostre forze armate: come dire di no a chi ci ha, tanto generosamente, liberato? Anche in questo caso, la risposta è semplice: dicendo “No!”. Mica ci vuol tanto…si prendono carta e penna e si scrive: cari Liberatori, vi saremo eternamente grati per averci liberato, settant’anni fa, ma capirete che, di questo passo, dovremmo essere  ancora grati ad Alarico per averci liberato da quei fascisti di Romani. Ci toccherebbe organizzare ogni anno una ricostruzione del sacco di Roma, con tanto di pretoriani, Goti ed etere discinte. Facciamo che siamo pari e patta: vi abbiamo fatto da schiavetti e da scendiletto per un sacco di tempo e tanto basta. Per cui, i vostri F35, che non stanno per aria, vendeteli a qualcun altro. E in Afghanistan a far la guardia al nulla, mandateci gli eschimesi. Già che ci siamo, se poteste, cortesemente, levare le tende da San Rossore, da Aviano e così via, ve ne saremmo oltremodo grati. Sapete: è un po’ di tempo che ci piacerebbe essere padroni a casa nostra. Con la gratitudine e l’affetto di sempre…E, allora, sì che ci sarebbe da festeggiare. E da riscrivere la storia patria, per soprammercato. Solo che scrivere la storia o riscriverla, serve  a nulla, se poi nessuno la legge. Se nessuno ci pensa un po’ su. Se la scrive un manipolo di sapienti per un esercito di fessi.

Marco Cimmino

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