Ladislao Mittner nella sua Storia della letteratura tedesca, riservò ad Hermann Hesse poche pagine. Ciononostante, all’autore di Siddharta viene riservato un giudizio interessante: «quello che si cercò di definire con il suo pensiero, si esaurisce in un’irresolubile problematica del corpo e dell’anima». Martin Buber, a sua volta, precisò che Hesse, da quell’homo humanus che era, abbia propugnato la totalità e l’unità della natura umana. Questi due giudizi critici definiscono, sia pur sinteticamente, la caratteristica di fondo della “spiritualità” di Hesse.
Già dal primo romanzo, Peter Camenzind (1904), Hesse lascia trasparire «la problematica del corpo e dell’anima», la dialettica tra sensualità e spiritualità. Nello scontro con la vita quotidiana, Hesse rinuncia progressivamente ai sogni e alle illusioni di trovare nelle cose “oltre” sé stessi la libertà, la bellezza, la verità, l’armonia. Camenzindsi rende conto che la libertà e la verità possono essere raggiunte solo nel proprio intimo, mediante un profondo sentimento di unità delle varie cose, la quale a sua volta produce un’inclinazione a considerare e sentire ogni cosa come parte di un tutto: Dio. Dopo questa scoperta, tornato al suo paese natale, Peter riscopre che tutte le cose, anche le più piccole ed ordinarie, hanno un valore, un’importanza, e come talivanno godute e gustate intensamente.
Camenzind sente anch’egli – come San Francesco nel Cantico delle Creature – che tutte le cose, tutti gli elementi sono “sorelle e fratelli”. Una lezione d’amore per le cose, per la vita, la ricevette da un povero sventurato: il disabile Boppi, una splendida figura, forse una delle più belle dell’intera produzione letteraria di Hesse. Questo senso di unità delle cose e di fraternità Hesse lo mutò, oltre che da Francesco d’Assisi, dalla lettura di opere della civiltà orientale. La scoperta del buddismo e del taoismo rappresentò per lui un’inebriante esaltazione spirituale.
L’Oriente divenne per lui il faro, il punto d’irradiazione di maggior luce. La cultura tedesca aveva già avuto dei precedenti in questo ispirarsi allo spirito orientale ‒ Herder, Goethe, Schopenhauer, su tutti‒, ma per Hesse non fu solo questione di influenze letterarie e filosofiche. C’era in lui una predisposizione per così dire “genetica”. In La mia lettura preferita (1945), Hesse rivela: «Verso l’India, almeno, ero già avviato, e predestinato: i miei genitori e i miei nonni erano stati in quel Paese, avevano imparato quegli idiomi e assaporato qualcosa dello spirito indiano».
Questa “predestinazione” lo portò a compiere, è noto, un viaggio in India (1911): Singapore, Sumatra, Ceylon (dove incontrò il poeta crepuscolare Guido Gozzano). Questa esperienza lo deluse un po’:quello da lui visto era un continente colonizzato e come tale ibrido. Lo descrisse in Viaggio in India (1913) che anticipò quella «fuga o, pellegrinaggio» che ha caratterizzato tanta parte della cultura novecentesca, prima fra tutte quella prodotta nei sui deleteri eccessi, negli Anni Settanta del secolo scorso, dalla generazione hippy. Al Viaggio in India farà seguito il Pellegrinaggio in Oriente (1922), un romanzo in cui si narra di un singolare viaggio “senza ritorno” in Oriente alla ricerca del tao e della Kundalini, per giungere alla conoscenza della verità.
In Siddartha ‒ il capolavoro di Hesse per la perfetta fusione tra forma e contenuto ‒, viene descritto il pellegrinaggio del samana(pellegrino) alla ricerca dell’Assoluto. Egli conosce l’amore per una prostituta, per il denaro, per le cose esteriori. Si immerge nel mondo degli “uomini-bambini” succhiandone, fino in fondo, il veleno. Ma la sua sete di verità rimane insoddisfatta, anzi, l’ansia e l’insoddisfazione sono aumentate. Alla fine, il samana placherà la propria sete di Assoluto mettendosi ad ascoltare il fluire delle acque del fiume, che gli si rivela come un linguaggio sempre diverso eppure sempre uguale, punto di sintesi di tutte le voci del mondo.
Le tragedie della Grande Guerra, l’internamento della moglie in un manicomio, la morte del padre e la grave, malattia del figlio più piccolo, determinarono in lui una profonda crisi depressiva e spirituale, spingendolo allo studio delle opere psicanalitiche di Freud e Jung. L’effetto di queste letture è riscontrabile nell’opera Demian(1917) pubblicata con lo pseudonimo di Emil Sinclair. In Demian, Hesse descrive la storia di un giovane combattuto fra il mondo del bene e quello del male: il primo rappresentato dal misterioso Demian; il secondo da Kromer, un compagno di scuola bugiardo, ladro e malvagio. Thomas Mann considerò Demian un piccolo capolavoro.
Ma il romanzo più discusso di Hesse è senz’altro Il lupo della steppa (1927). È un libro di sapore fortemente pirandelliano nel quale Harry Haller, il protagonista, personifica un dualismo presente in ogni uomo: il coesistere di caratteristiche irrazionali con quelle razionali.Tale coesistere produce, poi, il sorgere non solo di due nature, ma di “molteplici” identità delle quali alcune, nel corso dell’esistenza umana, appaiono manifeste, altre rimangono sullo sfondo, nell’oscurità. Harry, un intellettuale sulla cinquantina, è dibattuto, fra due modi di essere: “essere uomo” ossia un mondo di sentimenti, di ragione, di cultura; “essere lupo” ossia un mondo di istinti irrazionali, di passioni selvagge. È evidente, in questo romanzo, l’influenza che su Hesse esercitò il romanzo di Fyodor Dostoyevsky, Memorie dal sottosuolo. L’antitesi tra i due mondi, però, non è netta e assoluta perché, secondo Hesse, nel mondo dell’uomo si possono celare anche delle meschinità – quelle piccolo-borghesi, ad esempio – e nel mondo del “lupo”, delle energie liberatrici per cambiare situazioni di ingiustizia e di oppressione, delle potenzialità rivoluzionarie insomma.
La dialettica tra bene e male, il dualismo de Il lupo della steppa, li ritroviamo in un altro romanzo: Narciso e Boccadoro (1930). Hesse si serve di elementi fiabeschi per narrare la storia, ambientata nel Medioevo, di Narciso, un monaco ricco di sapienza e di spiritualità e di Boccadoro, un artista insoddisfatto, sensuale, errabondo. Pur essendo diversi, entrambi, sono alla ricerca di qualcosa: dell’ideale, dell’assoluto. Il tema dell’artista irrequieto era già stato affrontato in Peter Camenzind e in Sotto la ruota (1906).
L’ultima delle sue grandi opere è, infine, Il gioco delle perle di vetro– scritto fra il 1931 e il 1942 –. È un’opera ambientata in un futuro da fantascienza, in un luogo chiamato Castalia. Qui vive il “fior fiore” del mondo dell’arte, della scienza, dei valori del passato. Essi si dedicano a un gioco spirituale, “il gioco delle perle di vetro”, che consiste nel trarre diversi concetti, colori, suoni da alcuni fili di perle tese su di un grande telaio. Vengono, così riassunti temi filosofici, scientifici, musicali. Attraverso questo gioco, i saggi di Castalia intendono conservare e tramandare l’immagine di una civiltà ormai in rovina, quella moderna delle macchine che produce alienazione e crescente disumanizzazione.
È ripreso così un tema già presente ne Il lupo della steppa: quello dell’odio per la civiltà delle macchine. Haller, infatti, con i suoi amici partecipa ad una specie di “caccia grossa” contro le macchine, facendo strage di veicoli e di guidatori. È “la natura del lupo” che, in questo caso, si scatena per annientare un prodotto perverso – secondo Hesse ‒, dell’ingegno e della razionalità dell’altra natura, quella dell’uomo. Per questo elemento, l’odio per la moderna civiltà industriale – sempre più alienante e distruttiva delle caratteristiche umane – dagli Anni Settanta in poi, i giovani insoddisfatti di questa società hanno spesso eletto Hesse a loro autore preferito, a loro cibo spirituale. Si pensi, in tal senso, all’eterno successo di Siddharta.
Pare il caso di ricordare che nella sua opera Hesse rivelò, inoltre, in più di un’occasione, l’importanza che nella sua vita spirituale ed intellettuale hanno avuto i grandi cinesi Mencio, Confucio, Lao-tzu. Di Confucio egli ricorda questa massima: «Il saggio non è forse colui che sa che non è possibile, eppure lo fa ugualmente». Riguardo a ciò, Hesse scrisse: «Ripenso spesso a questa massima, ed a parecchie altre, anche quando osservo gli avvenimenti mondiali e le dichiarazioni di coloro che hanno in animo di governare e rendere perfetto il mondo nei prossimi anni e decenni. Essi fanno come Confucio, il Grande, ma dietro la loro azione non c’è, come in lui, la cognizione “che non è possibile”».
È, come si vede, un invito ad un sano realismo, alla modestia, all’effettiva concretezza per i politici e i governanti d’ogni parte del mondo. Non ideologie palingenetiche e programmi da “luna nel pozzo”, quindi, ma buonsenso. Basta guardarsi intorno per vedere quanto, in effetti, manchi spiegando, in tal senso, l’attualità di Hesse che è bene leggere in questo terzo millennio di incognite, insidie e folle alienazione.
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