L’Italia ha un modo peculiarissimo di trattare i suoi geni: o li dimentica oppure li fraintende. Ai sommi, come Giuseppe Verdi, capita la doppia sventura: ridotto a taumaturgico santino e poi, come un vecchio centrino merlettato dei corredi virginali di una volta, riposto nella cassapanca dei ricordi della nonna. La nostra nazione sa essere matrigna come nessun’altra: suos devorat, alienos nutricat.
Verdi a Parigi di Paolo Isotta è sforzo culturale e intellettuale a cui solo un titano poteva attendere. Isotta è capace di trasportare il lettore direttamente nella Parigi di quei tempi, la cui importanza – sostiene l’autore – era allora pari a quella detenuta oggi da New York. Con l’abissale differenza che mentre adesso ci sono le mogli dei miliardari americani che s’ingegnano ogni giorno a trovare nuovi e rutilanti metodi di ingannare, con pudicizia e conformismo, la loro noia di dame che giocano a salvare il mondo, ieri c’erano Balzac, Flaubert, Maupassant. Geni e personaggi a cui Isotta dà del tu e che ci induce (e insegna) a rileggere, riascoltando le opere “francesi” del Maestro di Busseto.
Verdi, spesso, partì da soggetti contenuti in opere di medio (o scarso) livello per trarne dei capolavori. È il caso del Rigoletto, per esempio, che “nasce” da Le roi s’amuse di Victor Hugo. O della Traviata che sorge da La dame aux camélias di Dumas figlio, che ne è a sua volta debitore alla storia vera di Alphonsine Plessis, successivamente Marie Duplessis (che la onnisciente Wikipedia ha il comico ardire di definire, con bigotta pudicizia moralisteggiante degna delle pagine del Dizionario flaubertiano, “arrampicatrice sociale”…).
Isotta accompagna il lettore, lungo le 668 pagine del libro, da autentico flâneur. È una guida rigorosa che svela, con la genesi delle opere, le cronache e le storie dentro e attorno al Maestro di Busseto, la di lui grandezza. Verdi, come la sua musica, ebbe radici solide e antiche, che (come il Grand Opéra) affondavano alla grande Scuola musicale Napoletana. Per questo ha avuto la possibilità di imporsi all’attenzione del mondo e della posterità.
Alcuni lampi in cui rifulge il genio raffinatissimo di Verdi, tuttora, sono negletti. Isotta ce li mostra, per esempio, nella Giovanna d’Arco: perché mai un banale valzerino campestre accompagna il demonio tentatore? Perché, nella breve e semplice vita di quella che diverrà la pulzella d’Orlèans, sicuro non ci sarà stata altra occasione di licenza che quella di una qualche “festa paesana”!
O nel Don Carlos, l’opera che più di ogni altra, a Verdi, causò dispiaceri: perché gli imposero di tagliarla, perché lui avrebbe voluto raccontare che al mondo vince il Male (insegnamento, questo, davvero classico più che cristiano o biblico, vedi Nietzsche) e i suoi interlocutori invece pensavano agli spettatori che uscendo tardi dal teatro avrebbero perso l’ultimo omnibus.
Il Don Carlos, poi, è il simbolo del tradimento a Verdi. Sebbene con questo condivida l’etimo, tradizione è tutt’altra cosa. Un sommo quale è stato Gino Marinuzzi ha scritto: “Ma che cosa dobbiamo intendere con la parola “tradizione”, limitatamente a quanto concerne l’opera musicale? Si deve intendere, in sintesi, la serie di tentativi, delle revisioni e dei cambiamenti fatti sotto la guida del compositore, cercando di realizzare il suo pensiero, trasmettendolo agli esecutori […] oppure si deve intendere per tradizione quella più vicina a noi, quella che ci ha trasmesso l’ultima generazione e che può essere quella che riassume tutta l’esperienza del passato, revisionata e depurata? Senza dubbio ritengo che per parlare di vera tradizione occorre sempre risalire alle fonti e, pertanto, alle intenzioni e al sentimento dell’autore”. Ma così non è stato né per il Don Carlos, tuttora eseguito nella versione a quattro atti a onta del suo stesso compositore, né per Verdi stesso di cui, all’italiano (che ancora si vanta d’essere stato da lui formato nel carattere), non è rimasto nulla.
Lo spiega, Isotta, in una postilla che ha valore decisivo: Giuseppe Verdi è stato genio italiano gigantesco. Suoi pari, per visione del mondo, per il culto della rifinitura, per il coraggio, per la conoscenza della natura umana sono Virgilio, Orazio, Leopardi, Manzoni; Machiavelli e Guicciardini; Giotto e Cherubini; Galileo e Michelangelo.
Legato alla terra, alieno alla mondanità; Verdi non amava chiacchierare e per lui una stretta di mano, come la parola data, era un atto sacro da cui discendevano precise e ineludibili responsabilità. Non si faceva remore a esprimere i suoi giudizi che non nascondeva dietro dissimulazioni né cortigianerie di sorta. Fu imprenditore che, coi guadagni, aiutava i suoi braccianti e che arrivò a costruire un ospedale tuttora funzionante. Altro che fondi esteri coperti da quattro spicci offerti strombazzando alle associazioni caritatevoli per abbassare l’imponibile…
Scrive benissimo Isotta: è stato, Giuseppe Verdi, l’italiano come avrebbe dovuto essere. Ma che questi non ha avuto né il coraggio né la voglia di essere, trasformandosi così nel suo esatto e odioso contrario: un pietoso ibrido che oscilla, come il pendolo di Schopenhauer, tra la pur insidiata prepotenza di don Rodrigo e la infastidita viltà di don Abbondio.
Paolo Isotta, Verdi a Parigi, Marsilio 2020, pp. 668, 28,00 euro, eBook 3,99.