Per molti la guerra è astratta. È un evento generico che appartiene agli altri, ai popoli lontani. Ma la guerra è disperatamente concreta per i testimoni. E di questi ultimi le narrazioni sono pesanti. Poi le voci lontane dei combattenti ci raggiungono: dicono che il dolore non ha mai fine. Abbiamo letto migliaia di pagine di letteratura di guerra: romanzi, saggi, liriche. Ora leggiamo un’opera-testimonianza che entra nello stomaco e fa osservare oltre le porte dell’inferno, la Seconda guerra mondiale. ‘Il volto della guerra’ di Hans Walter Bähr raccoglie le lettere del fante della Wehrmacht, del pilota della Raf, del soldato dell’Armata rossa, dell’americano meravigliato dalla guerra giapponese, dell’italiano che ragiona sul mondo che cambia e sull’Italia mai cambiata; così le voci implorano, scrivono nei sei anni del secolo spietato.
Nelle lettere, curata da Bähr, c’è il bilancio di più generazioni. C’è il bagliore della storia: i suoi riflessi nelle scelte, giuste o sbagliate, che costano rinunce. “Spesso mi dici non rinunciare a te stesso, non perderti nel nulla, ma sento come il terreno che mi cede sotto i piedi. Sono fiero e felice di non essere venuto al mondo senza coscienza e senso del dovere, anche se mi son costati infiniti dolori.” Scrive così Falco Marin, caduto nel 1943. Le sue parole riportano intense descrizioni: villaggi sloveni, paesaggi ad est senza luce, contadini che salutano romanamente, stormi di uccelli che occupano il cielo e il fango, tanto fango, sul destino degli uomini.
Accanto alle parole dei soldati le voci famose di uomini e donne che vissero il ‘fronte interno’. Simone Weil, Virginia Woolf, Antoine de Saint-Exupéry. Una lettera dello scrittore del ‘Piccolo principe’ pare scritta per i nostri giorni, “Non si può vivere di frigoriferi, di politica, di bilanci e di parole incrociate; capisce? Non si può più. Non si può vivere senza poesia, senza colore, senza amore.” Anno per anno la guerra attraversa queste pagine e la lettera di un giapponese, colpito dalle radiazioni atomiche, comprende tutte le conseguenze storiche, “Fiamme silenziose scorrono dappertutto, a Londra brucia Hiroshima, a New York esplode Hirosmima, a Mosca arde trasparente Hiroshima, danza senza parole di figure distese in tutto il mondo.”
Ha la sua epistola George Patton, il generale del “voglio una divisione di killer.” Scrive di aver scoperto una miniera, centocinquanta chilometri di tunnel, un’immensa cava di salgemma in cui i tedeschi hanno nascosto oro, danaro, opere d’arte; così al lettore sembra di trovarsi dentro un recente film americano. È coinvolgente la progressione con cui le lettere segnano gli eventi: ecco le parole scritte sotto le bombe della Battaglia d’Inghilterra; ecco la maledizione del gelo russo, “Se non fossimo qui, i russi infrangerebbero il fronte e distruggerebbero tutto. Sono molto violenti e sono milioni di uomini. Il freddo ai russi non fa niente. Ma noi geliamo in modo spaventoso.” Ed ecco la devastazione di Cassino, “Qui la terra trema come un terremoto.” Lo scrive un soldato tedesco sconosciuto. Uno di quelli con il volto più triste dei camerati fotografati su ‘Signal’. Uno di quelli che, sputando in terra, ripete che la guerra fa schifo, ma si deve fare.
Cosa possiamo trovare in queste lettere? Prima di tutto non devono essere considerate come cimeli. Lo sguardo della memoria insegna che il passato non è mai perduto, che ritorna nel presente. E lo fa per trasmettere coraggio, anche in questi giorni nei quali l’umanità è sottoposta ad una prova faticosa, ma non paragonabile a quella di uno scontro bellico mondiale; lo hanno detto in tanti. Adesso le parole di un musicista, ucciso da un soldato americano nel 1945, sono da leggere, ai giovani distratti, per comunicare loro il dovere di imparare a sperare, “Trasmetti il mio ricordo più intimo che mi domina giorno e notte, la mia indicibile nostalgia! Ma anche la mia tenace speranza in un futuro felice!”
*‘Il volto della guerra’ di Hans Walter Bähr, Iduna, pagg. 290, euro 20
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