Con questo sostantivo Lasch non voleva indicare il mero egoista «in preda a uno stato mentale per cui il mondo non è altro che lo specchio dell’Io», ma qualcosa di più sottile e di più complesso, un essere perseguitato dall’ansia, in stato di inquietudine e di insoddisfazione permanente proprio perché condannato a un eterno presente non in grado di soddisfarlo. Venuto meno il tempo dell’etica del lavoro e della fiducia nel progresso sociale, questo nuovo «uomo psicologico» si trovava senza più colpe di cui emendarsi, scaricate sulle istituzioni, i retaggi culturali, la società in senso lato, ma lasciato in balia di un individualismo fine a sé stesso, senza più una rete protettiva in grado di salvarlo da una più che prevedibile caduta.
Ciò che però venne percepito di questa tesi fu paradossalmente l’esatto contrario, ovvero l’esaltazione di ciò che a Lasch sembrava una tragedia, l’affermazione di una nuova umanità senza più ostacoli da superare, in giro per un mondo dove non c’erano più limiti né confini, del tutto soddisfatta della propria centralità, portatrice dell’idea di una crescita continua in linea con un progresso scientifico in grado di assicurare ogni cura, di sconfiggere qualsiasi malattia, di prolungare indefinitamente la nostra vita terrena.
Adesso che La cultura del narcisismo torna nelle librerie (Neri Pozza, pagg. 300, euro 18, traduzione di Marina Bocconcelli) si capisce quanto Lasch vedesse lontano nel tempo e quanto e come quelle che allora erano le avvisaglie della crisi di un modello di sviluppo sociale, economico, culturale, si siano trasformate nella descrizione di una realtà. Notava allora Lasch che «il liberalismo, teoria politica della borghesia in ascesa, non è più in grado di spiegare il mondo dello stato assistenziale e delle multinazionali, e nessuna teoria ha preso il suo posto. Le discipline scientifiche che ha promosso, forti in passato di una fiducia illuministica nella conoscenza, non forniscono più spiegazioni soddisfacenti dei fenomeni che si pretende di chiarire. La teoria economica neoclassica non riesce a spiegare la coesistenza di disoccupazione e inflazione (). La negazione del passato, in apparenza ottimista e progressista, rivela – a un esame più approfondito – la disperazione di una società incapace di affrontare il futuro».
Questa serie di considerazioni, tradotte nel linguaggio della contemporaneità, dell’emergenza in cui oggi ci troviamo a vivere la contemporaneità, ci racconta il fallimento della globalizzazione e della delocalizzazione, il mercato unico che si inceppa e va in quarantena, il capitalismo finanziario che non ha più attinenza con l’economia reale, un virus di cui la scienza non sa nulla, al di là del prendere atto della sua esistenza, il ritorno sulla scena, per quanto ammaccato, di quel passato, le nazioni come plebiscito quotidiano, fino al giorno prima irriso nel nome di un generico irenismo umanitario…
Allo stesso modo, l’intuizione avuta allora da Lasch su come si sarebbe andato deteriorando il rapporto tra informazione e opinione pubblica, letta oggi assume una sua sinistra verità: «Molti giudizi critici partono dal presupposto che il problema sia quello di impedire la circolazione delle falsità palesi, mentre è evidente che i mass media, diffondendosi, hanno reso non pertinente, per una valutazione della propria influenza, le categorie di vero e falso. La verità ha lasciato il posto alla credibilità, i fatti alle affermazioni che suonano autorevoli senza coinvolgere alcuna informazione autorevole». L’uso politico di quanto appena detto, è sotto gli occhi di tutti, la disinvoltura con cui un capo di governo può assicurare che non ha senso fare del proprio Paese «il lazzaretto d’Europa» e una settimana dopo lo sbarrare porte e finestre dentro e fuori quello stesso Paese… È l’ultimo portato di una politica come spettacolo che, scriveva Lasch, per politici e amministratori non ha altro scopo se non «vendere la loro leadership al pubblico, l’efficacia operativa misurata nei soli termini di prestigio e credibilità».
Più in generale, nel quarantennio trascorso dalla prima uscita di La cultura del narcisismo, è la stessa «democratizzazione dell’istruzione» a essersi rivelata nefasta, confermando quanto appunto Lasch vedeva in prospettiva: «Non ha allargato le cognizioni della gente comune sulla società moderna, né ha migliorato la qualità della cultura popolare e neppure ha accorciato il profondo divario tra ricchi e poveri. Ha contribuito invece al declino del pensiero critico e al decadimento degli standard intellettuali». Basta dare uno sguardo alla compagnia di giro degli «opinionisti televisivi», una vera e propria professione, per capire di cosa si sta parlando, per non dire della cloaca da web imperante.
La strage di anziani di cui sono lastricati questi giorni all’insegna del Covid-19 e dell’emergenza sanitaria, ci mette del resto sotto gli occhi, con evidenza schiacciante, ciò che Lasch aveva fotografato come un dato in fieri: «La nostra società non sa che farsene degli anziani. Li bolla come inutili, li obbliga ad andare in pensione prima che abbiano esaurito la loro capacità lavorativa e rafforza in ogni occasione la loro sensazione di superfluità. Svalutando l’esperienza e attribuendo una grande importanza alla forza fisica, alla destrezza, all’elasticità nello stare al passo con le idee nuove, la società definisce la produttività in termini che escludono automaticamente i cittadini anziani». Quello in cui ormai viviamo immersi sino al collo è un drammatico mutamento del senso storico, una società che, avendo perso l’idea del passato, ha perduto però ogni interesse per il futuro, non trasmette più perché non tramanda più, una sorta di eterna giovinezza-attualità con un’idea di crescita zero di popolazione.
Il nuovo millennio, dunque, realizza in pieno ciò che nel XX secolo era una linea di tendenza. Abbiamo di fatto un’etica della comodità e il culto dell’edonismo e dell’autorealizzazione. Abbiamo sostituito alla formazione di carattere la permissività, alla cura delle anime la cura della psiche, all’autorità individuale l’autorità parimenti irrazionale degli esperti di professione. Come scriveva Lasch, «le nuove strutture di dipendenza create dalla nuova classe dominante, e che agiscono con efficacia pari a quella con cui, in epoca precedente, venne sradicata la dipendenza del contadino dal suo signore, dell’apprendista dal suo padrone, della donna dal suo uomo», non sono il portato di un complotto o di «una colossale congiura ai danni delle nostre libertà». Più semplicemente, hanno a che fare con il susseguirsi di situazioni di emergenza di fronte alle quali il culto del pragmatismo da un lato, l’incapacità politica di vedere oltre i problemi immediati dall’altro, funzionano da provvisori tamponi per l’hic et nunc.
A ciò si unisce ciò che sempre Lasch definiva la protezione «del sistema del capitalismo corporativo dal quale i manager e i professionisti che lo gestiscono traggono i maggiori benefici. La maggior parte di noi è in grado di vedere il sistema, ma non la classe che lo controlla e che monopolizza la ricchezza che esso crea. Se rifiutiamo l’analisi di classe della società moderna, ci precludiamo la possibilità di comprendere l’origine delle nostre difficoltà, i motivi della loro persistenza, i modi eventuali di superarle». A emergenza finita, sarà forse il caso di riflettere su tutto questo.
Bell’articolo, come sempre quello che scrive Solinas. Dubito che a emergenza finita si trarranno grandi insegnamenti esistenziali. La gente vorrà recuperare il ‘tempo perduto’…