“Eduard Limonov è morto. Aveva settantasette anni. È morto da giovane, da adolescente. Si è sempre rifiutato disperatamente di invecchiare, di crescere. Non è mai cresciuto. Mi verrebbe da chiamarlo “nonno”, per sottolineare la sua adolescenza, usando un epiteto assurdamente contrastante rispetto a come lui si percepiva. Limonov è morto, restando del tutto giovane. Credo che il suo unico amore fosse quello verso se stesso. Ma era grande questo amore, gigante… era l’amore di una vita integra, che nessuno avrebbe potuto portargli via (…).
(…) Una volta mi aveva detto che a Kharkov, da giovane, per un amore adolescenziale, si era tagliato le vene; non per disperazione, ma per un eccesso di vitalità – per mancanza di paura e una certa ineludibile rimozione di se stesso. (…)
Limonov ha creato il partito dei giovani, che è stato ed è il fenomeno più eclatante della vita politica russa. Un partito folle e allegro, adolescente e indomito come lui stesso. Imitandolo, quei giovani hanno reso le loro carriere più adatte ad epigoni, mentre lui è rimasto da qualche parte ai margini della società, anche se tutti lo conoscevano (…).
È morto com’è vissuto. Senza piegarsi. È morto quando il suo tempo era giunto. Di una buona morte – con la coscienza chiara e lo spirito vivo. E questo è così importante… morire bene. Sì, la morte! Era lo slogan del partito nazional-bolscevico. Limonov ha ribadito queste parole uno volta di più… questa volta in maniera decisiva.