In tanti amano l’arte di Verdi, per una grandezza che essi intuiscono e per una miriade di motivi, a volte indecifrabili (il gusto personale è la porta d’ingresso dell’Inconscio). In questo suo ultimo “Verdi a Parigi” (Marsilio), Paolo Isotta ci dimostra, da par suo, perché sia giocoforza ammirarlo Verdi. Lo fa senza edulcorare gli aspetti tirannici della sua personalità (quale creatore, in quanto demiurgo, non è anche un despota, all’occorrenza?). Senza tacerne il procedere nella creazione a ciglio asciutto, antiretorico, rapido e brutale come uno stratega. Il lettore avverte l’uomo Verdi, certamente; ne tasta la stoffa e, tuttavia, la personalità del musicista è visibile solo in filigrana. Non siamo di fronte ad una biografia verdiana. Né, tantomeno, Isotta risolve Verdi e i suoi capolavori nella categoria fin troppo suggestiva di «autobiografia della Nazione».
Il protagonista del saggio è il teatro musicale di Verdi, nel suo rapporto con il modello del Grand Opéra. Un modello plasmato dagli autoctoni Auber, Meyerbeer, Halévy, oltre che da allogeni quali Cherubini, Spontini, Rossini, Donizetti. Si tratta di un paradigma reso canonico da giganti, eppure Verdi non se ne lascia fagocitare, in forza della propria grandezza. Dentro quella grandezza Isotta, come un maestro mai scolastico, ci fa da guida e ci introduce a ragion veduta. E poiché, come sosteneva Sciascia, «l’italiano è il ragionare», l’argomentare di Isotta sottile e insieme profilato, vario nei registri, analitico e capace di straordinarie aperture di compasso – sfocia in quel colore stilistico che gli estimatori di Isotta ritrovano in lui solo. Una lingua inconfondibile, fieramente inattuale, capace come nessuna di amalgamarsi con gli autori che Isotta venera. Ma su questo torneremo. Dare conto di un libro che si inoltra come una sonda nelle partiture verdiane è compito impossibile nello spazio necessariamente sacrificato di un articolo (saggio chiamerebbe saggio). Ognuna delle partiture verdiane affrontate da Isotta viene passata nel controluce della dottrina pagina dopo pagina, in una lettura analitica che, però, non smarrisce mai la veduta d’insieme e non risulta mai aridamente tecnicistica. Isotta, per dire così, ripercorre amorosamente l’albero, ce lo fa percepire in modo tattile ed è, nello stesso tempo, in grado di oggettivare, davanti a sé e a noi, la foresta del corpus verdiano. In che modo l’autore riesce nell’impresa? Risposta: perché Isotta non è solo lo storico della musica a tutti noto. Egli è anche storico delle idee e storico del gusto. Seguendo la lezione del maestro Praz sa cogliere i rimandi reciproci e le vicendevoli intersezioni fra le arti. Cosicché, per esempio, ci fa leggere Violetta Valery alla luce de L’educazione sentimentale o in rapporto con la Bovary dell’amato Flaubert o con il gusto dell’Età di Luigi Filippo. Le opere d’arte, ci ribadisce Isotta, sono fra loro contemporanee. Lo sono in una maniera a volte sottile come un capello; quel sottile legame Isotta sa farlo vibrare rendendolo, con ciò, visibile. Ed ecco il motivo per cui la disamina analitica di Traviata o Macbeth non si esaurisce in una visione al microscopio della partitura. Isotta non è uno scienziato e ne sia fiero): egli è un saggista di rango e qualcosa di più. Parlo, in questo caso, del quid che differenziava Longhi da tanti altri storici dell’arte (lo stesso discorso è ripetibile con Ripellino per gli slavisti o Macchia per i francesisti).
In tutti i casi citati il saggista segue naturalmente gli sviluppi di un autore, coglie i nessi fra creatori coevi, individua le genealogie di un’opera d’arte. D’accordo. Giunge però, in quei rari casi, il momento in cui il saggista si fa interprete dell’autore indagato. In quel momento la distanza fra i due comincia ad assottigliarsi. In quel momento il saggista nella sua fattispecie migliore diviene realmente mon semblable, mon frère dell’artista da lui scandagliato, poiché si avvicina al cuore del significato (spesso un cuore di tenebra). Ed ecco che, in certi passi cruciali, il saggista si converte egli stesso in artista. La critica diviene parafrasi nel senso più alto; acquista lo stesso slancio visionario e intuitivo, non completamente razionalizzabile che caratterizzò l’opera d’arte sotto esame. In qualche modo, lo scritto del saggista completa l’opera d’arte, la prolunga oltre se stessa e le apporta nuova vita. Il che accade in non pochi passi di questo Verdi a Parigi.
*Da Corriere del Mezzogiorno del 13.03.2020