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Il vuoto “riempie” giornate d’attesa. Nel silenzio di una casa colma di libri, uniche presenze rassicuranti, si consumano pensieri che nel tempo sospeso ingigantiscono la fragilità che s’avverte insolente nel corpo e nell’anima. Anche da fuori i pochi rumori arrivano attutiti, quasi a non voler disturbare gli animali tramortiti rintanati in confortevoli rifugi. E mentre con lo sguardo si cerca d’imparare a conoscere angoli di casa che sembrano estranei, sottilmente s’affaccia un interrogativo: perché a me no? Riconoscenza dovuta al destino finora, ma insieme come non provare ad affacciarsi sulle sconosciute vite degli altri aggredite dall’alieno invisibile giunto alle nostre porte ed infilatosi nelle pieghe più riposte dei nostri corpi e delle nostre anime, inatteso, improvviso, arrogante, dispotico? Lo spettacolo desolante ci racconta della paura e della speranza che si muovono nel deserto di strade e piazze e luoghi di varia socialità forzatamente disertati. Ma ci spinge anche a ritenere che la materialità alla quale abbiamo votato noi stessi non è tutto, non può essere tutto.
Riconquistare uno stile antico
Nessuno gode di rinunce e sacrifici; perfino la più piccola delle libertà limitate ci appare uno scandaloso abuso. Eppure il virus che vaga senza meta e si annida dove vuole e quando vuole ci richiama ad antiche costumanze che abbiamo abbandonato, come la severità, l’austerità, la sobrietà. Certo, la riconquista di uno stile di vita meno convulso e segnato da estremo egoismo in molti casi nessuno auspica che possa rinascere con l’apparizione di un morbo che ci tiene in cattività e minaccia di ucciderci. Ma di fronte al Male è forse possibile riconoscere che la nostra fragilità è il limite insuperabile oltre il quale c’è la dissoluzione.
I titoli dei giornali ammucchiati da settimane in un angolo del mio studio “strillano” le preoccupazione economiche e finanziarie nascenti dalla catastrofe che si dilata giorno dopo giorno. Ora, da un po’, leggo di altro. Quelle legittime disperanti previsioni non vengono più assunte come prioritarie: è un buon segno. Necessitato dal terrore che non può esservi futuro se non si assumono regole quanto più stringenti si possa immaginare nella considerazione che prima della libertà viene la vita. E se la morte incombe, come tristemente constatiamo, della libertà non rimane che un suono, un’eco lontana, una venerazione profana cui abbiamo adattato i nostri comportamenti fidando che nessuno li avrebbe messi in discussione.
Libri deposito di civiltà
Al tempo del coronavirus restano poche cose che percepisco nel silenzio che mi avvolge accarezzando con lo sguardo uno per uno tutti i miei libri, deposito di una civiltà che da un momento all’altro potrebbe annebbiarsi, fino a celarsi del tutto e perdersi alla mia vista. E tra le poche cose un sentimento di amore che non sempre riusciamo ad esprimere; il riconoscimento di memorie che scansiamo per pigrizia; la pietà che turba spesso le nostre coscienze; la bellezza che non riusciamo ad apprezzare inseguendo l’utile; la verità che ci facciamo sfuggire tra le pietre dell’odio, del risentimento, del rancore.
Ho paura che l’alieno invisibile non mi dia il tempo di riconciliarmi con tutto ciò che per me è l’essenza della vita. È evidente che giacere ai margini della disperazione mi procura un’angoscia spaventosa, ma nello stesso tempo m’ introduce al cammino nell’inconoscibile. E allora che cosa resta delle molte parole dette e ascoltate in questa tragica Quaresima che non sappiamo se finirà con la Pasqua di Resurrezione? La consapevolezza nel trionfo della modernità che nulla è più moderno della provvisorietà di questi brandelli umani che spazzano le effimere certezze meticolosamente costruite per puro piacere, come in epoche dimenticate quando il cielo sembrava crollare su templi e cattedrali ed il riparo, per chi lo aveva, era la fede, la speranza del miracolo, la devozione senza ragione. Tutto è uguale. E tutto ritorna. Le bibliche catastrofi e la peste manzoniana, le rovine degli imperi fondati dai figli degli Dèi e le tragedie dei popoli trascinati nel giogo della storia da potenti invasati. Nulla è più provvisorio del potere, per quanto immenso e all’apparenza granitico. Ma il potere ci è stato concesso perché durasse un tempo limitato ancorché lungo. Bisognerebbe ricordare in ogni istante che la polvere che calpestiamo è il nostro esclusivo dominio. Non possiamo pertanto vivere il presente come se fosse eterno, dimentichi del passato ed incuranti dell’avvenire. Il presente è un morbo – talvolta – dalle infinitesimali proporzioni, neppure lontanamente percepibile se non quando ha attuato il suo criminoso disegno. Opporsi, combatterlo, sconfiggerlo è doveroso. Ma sapendo che siamo effimeri come fiori e non abbiamo la loro bellezza.
Silenzio, paura e speranza
Il silenzio che riempie i nostri giorni forse può aiutarci a rinascere. Avendo paura, ma affrontandola con la speranza. Ducunt volentem fata, nolentem trahunt . “Il fato conduce colui che vuole lasciarsi guidare, trascina colui che non vuole”. Seneca illumina questo scorcio d’inverno parlando a Lucilio come se nel suo amico vedesse noi, il nostro destino. (da Formiche)
Mah! Se io guardo le foto di mio padre, di mia madre, degli zii, di mio nonno ecc. a Torino negli anni di Guerra li vedo magrissimi. Cento, mille volte da bambino ho ascolato storie di quei tristi tempi nei quali, oltre le bombe ed i rifugi, soffrivi la fame e quel poco che mangiavi era pessimo… Però un bel giorno la guerra finì e quasi l’unico obiettivo degli italiani sopravvissuti fu divertirsi, mangiare il più possibile. Il cibo acquisì una valenza sessuale… Prendevi il treno per la Liguria all’inizio dei ’50 e dopo 10 minuti, non di più, già uscivano dai borsoni panini imbottiti, uova, frittate, cotolette alla milanese ecc. Lungo le banchine dei carrettini vendevano di tutto nelle stazioni, giacchè dai finestrini aperti potevi far entrare quasi di tutto, non solo il chinotto o l’aranciata Martinazzi o la cedrata Tassoni… Tutti, tra un boccone e l’altro – per finire con l’immancabile thermos del caffè e la fiaschetta con la grappa, per gli uomini – maledivano la guerra e le penurie indotte e passate. Preti e monache erano allora numerosi sui treni e mangiavano pure loro a quattro palmenti. Austerità e sobrietà erano state obbligate, per troppo tempo. Sono, in dosi elevate, virtù di anacoreti, non di umani…Oggi più nessuno mangia in treno tra Torino e Savona… Abbiamo dimenticato la fame e siamo spesso a dieta. Non per questo la spiritualità mi par cresciuta. Né crescerà con le pandemie.
Ed è proprio la coscienza dell’effimero che incrementa il bisogno dei beni materiali, credo.
Testo corretto, pardon:
Mah! Se io guardo le foto di mio padre, di mia madre, degli zii, di mio nonno ecc. a Torino negli anni di Guerra li vedo magrissimi. Cento, mille volte da bambino ho ascoltato storie di quei tristi tempi nei quali, oltre le bombe ed i rifugi, soffrivi la fame e quel poco che mangiavi era pessimo… Però un bel giorno la guerra finì, pure il duro primo dopoguerra, e quasi l’unico obiettivo degli italiani sopravvissuti fu divertirsi, mangiare il più possibile. Il cibo acquisì una valenza sessuale… Prendevi il treno per la Liguria all’inizio dei ’50 e dopo 10 minuti, non di più, già uscivano dai borsoni panini imbottiti, uova, frittate, cacciatorini, cotolette alla milanese, formaggini Mio ecc. Lungo le banchine dei carrettini, nelle stazioni, inoltre, vendevano di tutto, giacchè dai finestrini aperti potevi far entrare cibarie di ogni tipo, non solo il chinotto o l’aranciata Martinazzi o la cedrata Tassoni… Tutti, tra un boccone e l’altro – per finire con l’immancabile thermos del caffè e la fiaschetta con la grappa, per gli uomini – maledicevano la guerra e le penurie indotte e passate. Preti e monache erano allora numerosi sui treni e mangiavano pure loro a quattro palmenti. Austerità e sobrietà erano state obbligate, per troppo tempo. Sono, in dosi elevate, virtù di anacoreti, non di umani…Oggi più nessuno mangia in treno tra Torino e Savona… Abbiamo dimenticato la fame e siamo spesso a dieta. Non per questo la spiritualità mi par cresciuta. Né crescerà con le pandemie.
Più che una pandemia, per tornare ad essere austeri e morigerati occorrebbe una controrivoluzione antropologica e culturale che demolisca tutto il negativo che ci ha lasciato il Sessantotto. Praticamente quasi tutto.
Werner. Inutile pensare all’impossibile. Anche perchè il buono e il male sono intrinsecamente uniti…Al massimo potremo diventare trogloditi, se crolla tutto il nostro mondo, come in certi film. Non mi pare auspicabile…