C’è Marte nel cuore degli Appennini, prima ancora di Giove. C’è Marte nei nomi delle montagne d’Appennino, dei borghi, nella memoria degli antichi riti, nelle migrazioni dei popoli che ne determinarono l’aspetto fisico e spirituale.
Così, ad ogni inizio di marzo, dalle nostre cime, conviene onorare questo dio, o almeno la sua essenza, che non evoca solo un guerriero, quanto piuttosto un protettore.
Marte, come difensore armato – scrive Renato Del Ponte (Dei e miti italici, Ecig) – poteva essere invocato dai guerrieri prima della battaglia e dai contadini prima della lustrazione dei campi, con offerta di frutta e sacrificio di messi, fare da patrono ai bellicosi Salii e ai pacifici Fratres Arvali. Marte dunque, protettore della gioventù, degli eserciti, dei campi e delle greggi. Ma anche dio delle primavere.
Nel primo giorno del mese a lui dedicato, il mese marzio, terminato il mese delle purificazioni e delle febbri, febbraio, per gli antichi italici e nella prima Roma si festeggiava il vero capodanno. Tutto iniziava di nuovo a partire dal primo giorno di marzo.
Martius mensis initium anni fuit…
(FEST. Pag. 136)
A Roma i Salii in processione battevano sugli scudi sacri; ma in Appennino?
Anche qui, da marzo, con Marte, ogni attività riprendeva il suo corso: ricominciavano i lavori nei campi, nascevano gli agnelli, si assisteva al risveglio della natura, tornavano le energie nei corpi e negli animi, specie in quelli dei più giovani. Infine gli anziani superavano le afflizioni del freddo e dell’umidità. Si poteva così pensare ai preparativi per nuovi viaggi e per le spedizioni, anche quelle per difendere o allargare i confini della propria comunità.
Sulle tondeggianti e prative cime delle montagne dell’Umbria, delle Marche e della Sabina, nei punti di passaggio e in quelli di culto, i pastori e i guerrieri lasciavano piccoli ex voto, bronzetti votivi che raffiguravano il Marte gradiente, il Marte che va, con la sua lancia, l’elmo, gli attributi virili, in segno di buon augurio, per una nuova primavera.
A Marte erano dedicate delle strane montagne, una propaggine appenninica, i Monti Martani, al centro dell’Umbria. Per la sua conformazione questo piccolo massiccio che raggiunge appena i 1120 metri di altitudine, appare dalle valli circostanti quasi come un enorme altare di pietre calcaree orlate da fitti boschi di lecci.
Di altari, di are pagane, in effetti, i monti Martani ne celano parecchi, tanto che la loro principale cima venne a lungo chiamata Ara Major, oggi Torre Maggiore. Dalla parte opposta del massiccio, verso Nord, la seconda cima ospitava un’altra ara e un altro tempio. In mezzo a questa grande isola montana sospesa tra Valle Umbra, Valle del Tevere e Valnerina, ogni cima era circondata da pietre, da castellieri, da segnali.
I Martani erano dunque montagne consacrate, con le loro are visibili a centinaia di chilometri di distanza. Sotto di loro, proprio al centro del massiccio, ecco Todi, l’antica Tular, città-confine tra Umbri e Etruschi sulla riva sinistra del Tevere, città di Marte, dove nell’Ottocento, sotto il convento di Montesanto, venne alla luce (indicata da un raggio di sole…) una statua bronzea del V secolo avanti Cristo, di fattura etrusca, che raffigura un guerriero con la sua armatura, forse proprio il dio Marte.
Il nome di Marte si ritrova poi nel piccolo borgo di Massa Martana, Vicus ad Martis (o Marta) su un diverticolo della Flaminia, a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla cima del Monte Martano.
Quanto Marte e il mese di marzo, fossero importanti per gli Italici, lo testimoniano altre cerimonie e riti: il primo marzo, oltre al capodanno, si festeggiavano solennemente le donne e le partorienti con i Matronalia, e con culti legati a Giunone Lucina, madre di Marte stesso.
In marzo soprattutto le antiche touta-tribù stanziate nel cuore d’Appennino, in territorio sabino e umbro, iniziarono la propria migrazione-semina dei popoli d’Italia. Appena le nevi cominciavano a sciogliersi, le comunità decidevano di allargare i propri confini, di spedire i giovani migliori a cercar fortuna, a fondare altre comunità in territori inesplorati.
I Ver Sacrum, le Primavere Sacre degli Italici prendevano il via nei primi giorni di marzo, dalla Sabina, da Plestia, dalla piana di Norcia, dal lago sacro di Cotilia e forse anche dai Monti Martani
I giovani sacrati a Marte erano preceduti da un animale totemico: il primo fu il Picus, il Picchio Verde, che guidò i Sabini verso il territorio transappenninico che oggi è il Piceno. Quel picchio era denominato non a caso Picus Martius.
Poi ci furono i Marsi e i Mamertini, anch’essi consacrati a Marte. Quindi venne il toro che guidò i Sanniti nel loro ver sacrum, il lupo per gli Irpini, e così via.
Ma tutto, in Appennino, si mosse con Marte, il dio custode delle greggi, della semina dei popoli, protettore dei campi e degli eserciti.
Benché in Appennino fosse reso onore a Giove Pennino, come scrive Giacomo Devoto, “non è il culto di Giove la manifestazione più antica presso gli Italici”: prima veniva il Marte italico, il Marte Grabovio degli Umbri, il Marte della primavera.
Utile ancora invocarlo per una nuova primavera d’Appennino.