La recente riedizione dell’opera di Spengler per Aragno suggerisce qualche riflessione in merito all’attualità del volume che negli anni Venti del Secolo breve ebbe un enorme successo per il suo pathos e le sue geniali intuizioni. “Il tramonto dell’Occidente” fu pubblicato tra la fine del 1917 e quella del 1922 e in Italia arrivò tradotto da Julius Evola solo nel 1957.
L’opera era emblematica già dal titolo: la crisi della Germania veniva interpretata come il tramonto di un’intera civiltà. D’altra parte, era il 1918 e «la fede illuministica nel progresso stava andando a pezzi, il naufragio del Titanic aveva trascinato con sé l’entusiasmo per la tecnica e una guerra mondiale catastrofica per i vinti e per i vincitori aveva fatto esplodere l’edificio della civiltà e dell’ordine europeo ovvero mondiale» [1].
In un quadro concettuale che riprende i temi della speculazione di Goethe e di Nietzsche, Spengler respinge ogni concezione unitaria dello sviluppo storico cercando i sintomi della decadenza europea nell’analisi dei fenomeni politico-economici del mondo a lui contemporaneo. Lo fa interpretando l’Occidente secondo la sua etimologia, ossia «come la terra del tramonto, il sole che tramonta, occidit» [2]. Un tramonto che si eclissa nell’affermazione della borghesia, nel primato dell’economia sulla politica, nella democrazia e nella crisi dei princìpi religiosi.
Come tutte le altre, anche la cultura occidentale è per Spengler un «organismo vivente d’ordine superiore» [3] che ha una nascita, una crescita, una decadenza e una morte. Nell’ottica di questa parabola le categorie a cui si affida l’Autore si riducono essenzialmente ad una, l’antitesi tra la Kultur e la Zivilisation: la prima identifica il periodo ascendente di una civiltà nel quale predominano «i valori spirituali e morali che danno il senso all’esistenza degli esseri che vivono secondo i dettami del diritto naturale»; la seconda si palesa quando la civiltà invecchia e la sua anima si rattrappisce: «al principio della qualità si sostituisce quello della quantità; all’artigianato, la tecnica; l’invasività della massificazione dei gusti e dei costumi travolge le differenze; alla città suggente vita dalla campagna ed organizzata a misura d’uomo, si sostituisce la megalopoli come estrema forma di indifferentismo, un termitaio senza più una dimensione umana; le società sono livellate, l’edonismo ed il denaro sono i soli valori riconosciuti» [4].
La Zivilisation – che nelle pagine dell’autore è sinonimo di decadenza – si estrinseca soprattutto come «massificazione, cioè processo di livellamento, cui corrispondono, sul piano politico, il cosmopolitismo in luogo della patria e la “società civile” in luogo dello Stato» [5].
In altre parole, tutto ciò che ci ha portato quel Moloch graniticamente difeso da ogni possibile critica che è stata ed è la “globalizzazione”: il Leviatano che nessuno poteva contestare se non venendo tacciato di fascismo (prima) di nazionalismo (poi) e di sovranismo (oggi); il Baal che ha operato una recisione netta delle radici culturali europee – ora che non c’è più Olimpia ed Atene è stata sostituita da Francoforte – rendendo «il deserto culturale, la socializzazione della cultura, […] sempre più funzionali alle necessità di una tecnica economica distante ormai anni luce dai postulati classici dell’economia politica» [6].
La liquidazione dell’intera cultura di tradizione umanistica ha imposto l’interruzione della traditio, ossia la trasmissione, il passaggio del testimone da una generazione all’altra; la destoricizzazione della cultura e la fine dello Stato nazionale hanno completato l’opera ed il risultato è stato piuttosto paradossale: «il “concetto” ha sostituito le cose e i rapporti concreti, la “persona” l’individuo, la “personalità” le sue caratteristiche, lo “Stato” l’equilibrio precario delle forze collettive, la “Chiesa” e la “religione” hanno surrogato ogni interiorità che non si disponga sul piano di una morale convenzionale» [7].
È innegabile che la descrizione di «quella civiltà spenta e opaca, priva di passioni, che Spengler situa in un’Europa orientale semiasiatica, assomiglia all’atmosfera che […] sempre più diffusamente, si è creata nel nostro Paese» [8] e che le tristi vicende del «terribile morbo che tutti ci piglia» di brancaleoniana memoria non hanno fatto che acuire e deflagrare in una escalation di pazzie che ci hanno portato, insieme ad una buona dose di sventura, a questo punto.
La responsabilità contro il politicamente corretto
Se per l’opinione pubblica mondiale siamo non più un Paese, non più una Nazione ma solo “una zona rossa” lo dobbiamo agli hashtag lanciati e ai selfie provocatori veicolati all’abbrivio della diffusione in Italia del Covid-19. Tutte iniziative volte a colpire le voci isolate e preoccupate che si ergevano contro l’ortodossia buonista del politicamente corretto, dei porti aperti, degli ius soli, della propaganda gender, degli aperitivi solidali, del “nessun panico” che invece ci hanno portato, in una manciata di giorni, a quello che nessun totalitarismo era riuscito a fare in decenni.
Dopo aver deriso, schernito, tacciato di intolleranza chi invocava al senso di responsabilità ci siamo trovati «privati delle libertà più elementari in cambio di sicurezza, ma una sicurezza che non arriva, anzi, che è più aleatoria che mai; privati del diritto di andare alle elezioni in cambio del miraggio di far fronte a un pericolo comune, mentre resta in sella un governo moralmente e materialmente illegittimo, di abusivi, di incapaci, di traditori; privati del diritto di usare i nostri soldi, se non nelle forme stabilite dal potere, cioè senza uso di contante; privati del diritto all’istruzione, vale a dire quel pochissimo d’istruzione che ancora si somministra ai giovani nelle nostre scuole; privati insomma dei servizi essenziali, compreso l’uso dei mezzi pubblici; e privati al tempo stesso di ogni conforto spirituale, di ogni funzione e cerimonia religiosa, della santa Messa e perfino di un decente funerale cristiano: privati praticamente di ogni cosa che rende la vita bella e amabile, compreso il “diritto” di abbracciare e baciare un amico, anzi, di parlargli a meno di un metro di distanza» [9].
Il tutto perché si è sottovalutato il reale pericolo della minaccia invisibile sacrificandolo sull’altare della vergogna di noi stessi e dei nostri valori più nobili e tradizionali, quelli che esprimono la nostra “cultura”, concetto inevitabilmente e intrinsecamente legato ai concetti di “identità” e di “luogo” che non potevano essere – senza essere esposti alla berlina di “quelli che benpensano” per dirla con Frankie hi-nrg mc – né difesi né richiamati.
Siamo stati vittime, prima che del coronavirus, di una «regressione, avanguardia della barbarie», che ha assunto «il volto del politicamente corretto» rendendo la lezione di Spengler drammaticamente attuale per noi e l’Occidente che – facendo indigestione del buonismo e privandosi del buonsenso –, muore «per paura e per retorica, credendo stupidamente di far bene e facendo invece spesso il male, negando con i suoi comportamenti gli ideali che crede di affermare» [10].
Abbiamo così preferito di esporre tutti – italiani e non, europei e immigrati – ad una pandemia per non correre il rischio di far passare delle politiche di contenimento sanitarie per razziste e ci siamo trovati a dover prendere provvedimenti che mai erano stati presi, né tra gli anni delle due guerre mondiali, né in quelli della “strategia della tensione” o in quelli “di piombo”.
Ci ritornano in mente le denunce di quel «pensiero unico progressista, femminista, globalista, migrazionista, omosessualista», che secondo alcuni si sta imponendo «contro la coscienza morale e contro l’intelligenza di milioni e milioni di persone, allo scopo di asservirle mentalmente e di operare in esse un vero e proprio lavaggio del cervello, veicolando una nuova e aberrante tavola dei valori, dove il male diventa bene, il falso diventa vero, il brutto diventa bello, e viceversa» [11].
Non è facile stabilire se le cose stiano davvero andando in questa direzione, ma una cosa è certa: l’Occidente – di cui siamo parte integrante – tramonta quando una giudice tedesca assolve «un turco musulmano che aveva stuprato una donna, perché, ha detto, quell’azione rientrava nella sua cultura, senza accorgersi di offendere così tutti i musulmani, considerandoli implicitamente degli stupratori […] quando in Danimarca le autorità hanno censurato nei libri di testo i riferimenti e i motivi cristiani, per non offendere scolari, sempre più numerosi, di altre fedi» [12].
La sensazione è che il Covid-19 abbia incarnato – palesandola – la minaccia invisibile ma tangibile di un perbenismo controproducente e snaturante «la democrazia in democratismo» [13] che alcuni di noi percepivano e denunciavano. Gli altri ci hanno attaccato con aggettivi vecchi di cent’anni osteggiandoci in virtù di un buonismo che, in realtà, era solo viltà «travestita da mentalità aperta ed evoluta» [14].
Ci duole dirlo, in un certo senso: avevamo ragione noi, ieri come oggi.
Note
[1] C. Magris, L’Occidente vittima della propria viltà, in «Corriere della Sera», del 10 marzo 2020.
[2] M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Milano, Adelphi, 1994.
[3] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Parma, Guanda, 1999, p. 41.
[4] G. Malgeri, Perché dobbiamo rileggere “Il tramonto dell’Occidente” di Spengler, in «Formiche», dell’8 luglio 2017.
[5] A. Verna, Il Tramonto dell’Occidente, in Il Tramonto dell’Occidente. Atti del Convegno, Ascoli Piceno, Edizioni Librati, 2004, p. 172.
[6] P. Simoncelli, intervento al Convegno Oltre Salerno. Benedetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica, del 28 settembre 2014, ora in G. Di Leo, Atti del Convegno di Pescasseroli e Pescina, Roma, Aracne, 2015, p. 162.
[7] R. Bonuglia, Se la democrazia diventa “regime” e gli intellettuali vassalli omologati, in «Barbadillo», del 1 febbraio 2020.
[8] C. Magris, L’impresa di resistere alla crisi in un Paese stanco senza più passioni, in «Corriere della Sera», del 1 settembre 2014.
[9] F. Lamendola, Et voilà: la dittatura è servita, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”, del 10 marzo 2020.
[10] C. Magris, L’Occidente vittima della propria viltà, cit.
[11] F. Lamendola, Il tumore che ci sta divorando si chiama liberalismo, in «Arianna Editrice», del 9 gennaio 2020.
[12] C. Magris, L’Occidente vittima della propria viltà, cit.
[13] J. L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy, Londra, Secker & Warburg, 1952.
[14] C. Magris, L’Occidente vittima della propria viltà, cit.