La letteratura verdiana si divide in due fronti: quella nostrana e quella straniera, per lo più anglo-americana. In quella nostrana, a fianco di grandi scrittori come Mila, Conati e Della Seta, abbonda una serie di autentici cretini.
Essi sostengono che l’aver scritto Verdi, il campione dei valori patriottici, Opere in lingua francese, fosse impresa di prostituzione; e sono portati a negare valore artistico a capolavori che vanno dalla Jérusalem al Don Carlos. Dall’altro, gli anglo-americani, nell’affrontare la storia dell’Opera francese sette-ottocentesca e del Grand-Opéra ottocentesco, attribuiscono la primazia a compositori indubbiamente rispettabili quali Hérold, Auber, Meyerbeer, Halévy, e altri; gl’Italiani sono per loro un fenomeno secondario. Ma la storia dell’Opera francese è fatta da Italiani. Da Gluck (che da compositore italiano divenne francese), da Salieri, da Cherubini, da Spontini, da Rossini, paradossalmente dallo stesso Meyerbeer, da Donizetti; e, per ultimo, da Verdi. Tale palese verità viene sovente sottaciuta o oppugnata. Contro le Opere in francese di Verdi si uniscono due opposte congiure.
Vi sono poi le Opere del Maestro di argomento francese, o perché in Francia si svolgono o per esser desunte dalla letteratura gallica. A parte l’impareggiabile intelligenza, Verdi era un uomo divenuto sempre più colto e dunque, a parte la sempre maggiore conoscenza della lingua francese, s’era vieppiù internato nella società parigina e nella cultura francese. Nei suoi rapporti con l’Opéra il teatro che al mondo amava meno era trascorso da Luigi Filippo alla Terza Repubblica. C’è qualcosa di più importante. Per scontroso e poco amante della vita mondana che fosse, la società francese la conosceva come casa sua. La Traviata, con le sottilissime distinzioni sociali che noi sappiamo per aver letto Balzac e Flaubert, poteva comporla solo chi intendesse che cos’è il monde, che cos’è il demi-monde, e gli strati intermedî e inferiori a questi.
Va aggiunto qualcosa che sovente sfugge alla letteratura. Quando scrive in francese, il melos di Verdi, come quello di Donizetti, che ne teorizza, acquisisce un carattere particolare e diverso: l’importanza delle vocali mute vale per lui più che per molti compositori di lingua madre gallica. E così via.
Infine, il carattere unitario come pochi altri della composizione di Verdi tende un filo fortissimo tra tutte le sue Opere, quali ne siano epoca e argomento. In tutte c’è un aspetto comune. Egli è la natura più vicina a Virgilio, Shakespeare e Mozart, che l’arte abbia generata: nulla gli è estraneo, tutto gli è egualmente prossimo e distante, come all’occhio di Dio. Quindi egli dà pari realtà artistica a qualsiasi carattere e a qualsiasi situazione. Ma certo l’eros gli è personalmente distante; gl’interessa e naturalmente è quasi sempre quello femminile quando si sublima in capacità di sacrificio. Meno di per sé. In questo non v’è alcuna differenza fra le sue Opere francesi o quelle italiane e d’argomento europeo.
L’unitarietà appena ricordata dello stile e dell’idea creativa del Maestro impone che effettualmente io parli di Verdi in sé; altrimenti avrei scritto una tesi universitaria, non un libro: e il tempo mi rende assai più prossimo alla tomba che alla tesi. La grande opera di Julian Budden, che resterà insostituibile, è degli anni Settanta: credo che ogni generazione abbia il dovere di tentare un proprio ritratto del nostro compositore nazionale, senza per ciò pretendere di sostituirsi a chi ci è superiore. Anche per questo, una parte del mio lavoro è dedicata al tentativo di ricostruzione dell’estetica di Verdi: che pare solo pratica, ma scaturisce da riflessione profonda espressa in modo forse troppo sintetico. In ciò, egli è davvero l’opposto di Wagner!
Eppure qualcosa, fra le tante, ma la più importante, con Wagner Verdi ha in comune. Quando incomincia a presentarsi al successo, ossia col Nabucco, del 1842, il Maestro scrive in un «genere» operistico così permeato dall’influenza del Grand-Opéra da non poter nemmeno tentare di difendersene. Onde lo stesso Nabucco, come le Opere successive, salvo alcune, a partire dall’Ernani, è un Grand-Opéra in tutto e per tutto, al quale mancano solo i Divertissements, i Balletti, per esserlo sotto ogni profilo. Ma ecco il punto: ciò che rende Verdi diverso e unico è ciò; e segue l’Autore del Guillaume Tell e quello della Favorite. Il Grand-Opéra francese è la realizzazione di una formula, conseguita la quale esso si sente perfetto. Per Verdi la formula è il punto di partenza: giacché a lui preme il raggiungimento drammatico di quel che Wagner pure sostiene di prefiggersi, e certo vi perviene, ossia il Rein-menschliches. Questo complesso neologismo, quale solo dal suo pensiero poteva scaturire, io lo traduco così: l’umano nella sua purezza, ossia l’umano, la qualità dell’esser uomo, spogliata dagli orpelli melodrammatici di ogni epoca, ma soprattutto proprî del Grand-Opéra. Mon coeur mis à nu. Volendo esprimermi in termini più moderni, in luogo di «orpelli melodrammatici» direi funzioni teatrali. Un carattere unico e inconfondibile. Ecco in che cosa, a titolo d’esempio, l’esotismo dell’Aida differisce da quello dell’Africaine di Meyerbeer.
Per non terrorizzare l’eventuale lettore, preciserò che il Verdi a Parigi non è un libro di musicologia in senso stretto, pur se parti musicologiche contenga. È un libro di storia della cultura e, persino, di storia della società: Verdi ne fa parte a pari titolo che della storia della musica.
Chiudo citando l’ultima frase della prefazione al I volume (1787) della Storia della decadenza e della caduta dell’Impero Romano del mio adorato Gibbon. «La favorevole opinione fin qui ricevuta potrà forse incoraggiarmi a proseguire un’opera che, per quanto possa sembrare faticosa, è la più gradevole occupazione delle mie ore d’ozio».
*Introduzione al libro “Verdi a Parigi”. Da Il Giornale del 28.2.2020