Ogni attento osservatore del mondo contemporaneo, se libero da pregiudizio ideologico, non può che constatare con mestizia lo stato comatoso nel quale, nei paesi occidentali, a stento sopravvive un’istituzione fondamentale: la scuola. Al livello dell’attuale degrado degli istituti educativi, si è giunti per gradi. Tutto iniziò con l’Illuminismo. I philosophes scoprirono il valore rivoluzionario del sapere. Diderot, che di filosofia dell’educazione, più di altri sui colleghi, si interessò, fu il primo a sostenere che ruolo imprescindibile della scuola doveva consistere nel preparare la trasformazione politica della società. Anziché luogo di formazione delle nuove generazioni, atto alla celebrazione del culto del passato, perché dalla sua conoscenza si potesse ancora trarre l’humus della civiltà, la scuola da allora ha assunto tratto ideologico. A ricordarlo, con persuasività di accenti e con organiche argomentazioni, è un volume del filosofo conservatore di origini ungheresi, Thomas Molnar, che a lungo visse ed insegnò negli Stati Uniti.
Ci riferiamo al suo, Il futuro della scuola, da poco pubblicato da OAKS editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 171, euro 15,00). Il libro è aperto dall’interessante prefazione di Marco Cimmino, che si occupa di storicizzare le cause del degrado della scuola italiana, e ripropone la presentazione di Russell Kirk, pensatore conservatore americano vicino a Molnar, che accompagnava la prima edizione italiana del testo. Le pagine cui ci riferiamo furono scritte all’inizio degli anni Sessanta, e rappresentano una significativa reazione teorica al diffondersi della pedagogia di John Dewey che, allora, influenzò le politiche scolastiche Usa ed europee. Un tentativo coraggioso che andò incontro ad aspre critiche degli intellettuali progressisti, perché mirava, come ricorda Kirk, a: «piantare i semi della vera cultura, dell’intelligenza normativa, in un mondo devastato dalle false teorie» (p. 7). Del resto, Molnar, sulla scorta di uno dei suoi «autori», George Bernanos, ha contezza che la modernità altro non è se non una: «congiura universale per distruggere la vita interiore» dell’uomo (p. 7).
Dewey, a dire di Molnar, volle costruire una scuola atta ad offendere la parte più rilevante della personalità, quel foro interiore che si ravviva nel contatto con il bello e la cultura umanistica e diventa, così, luogo di tutela dell’indipendenza di giudizio dei singoli e della libertà individuale. La scuola «funzionalista» ha coscientemente realizzato, attraverso l’enfasi didattica posta sui «lavori di gruppo», sugli aspetti socio-affettivi della formazione, con il reiterato appello alla necessità del recupero dei pre-requisiti negli alunni con deprivazione culturale indotta dall’ambiente famigliare, l’affossamento delle eccellenze, dei migliori. Insomma: «Dewey […] si dava a costruire una società impersonale: una società in cui sarebbero state eliminate le forti personalità» (p. 8), quegli uomini, per dirla con Carlayle, capaci di fare la storia. La distruzione dell’interiorità profonda, del Sé egemonico, guida di ogni individualità ed al quale aveva fatto riferimento, nella sua filosofia dell’educazione, Platone, era funzionale alla formazione di gregari, di uomini suggestionabili da qualsivoglia propaganda. La sbandierata «educazione alla democrazia» rischiava, pertanto, di tradursi, in una preparazione alla tirannia soft post-moderna. Una scuola in linea con la «liquidità» del nostro tempo.
Il permissivismo, l’agevolazione didattica realizzata con la riduzione dei saperi, in nome della scuola del «fare» e dell’esperienza sul campo, a lungo andare: «ha soffocata l’immaginazione ed oscurata la ragione» (p. 9). L’infanzia è stata ridotta, dalla psicologia deweyana, a semplice stadio preparatorio all’età adulta e deprivata dell’apertura sul mondo costituita da meraviglia e stupore, alla quale tutti noi «maturi» torniamo malinconicamente con il ricordo nostalgico. La «nuova» scuola pragmatista ha insegnato ai giovani semplicemente ad adattarsi al mondo contemporaneo, a «sopportarlo». Al contrario, nelle aule si dovrebbe tornare ad insegnare la possibilità di un’esistenza diversa ed altra da quella del mero produttore-consumatore, com’è testimoniata dall’intera cultura europea. Per questo alle sfide educative del presente, deprivato di ogni spessore esistenziale, non si può, a giudizio di Molnar, rispondere in modo tecnico, contrapponendo alla teoria deweyana, una diversa visione pedagogica. La scuola attuale non è che lo specchio del mondo nel quale viviamo, non è che rifrazione del soggetto antropologico dominante, l’uomo senza Tradizione. E’ necessario, al contrario, presentare, come il nostro autore tenta di fare nel pagine di questo volume, una visione del mondo alternativa. Infatti: «Se si ignorerà la funzione raziocinante ed etica della cultura superiore, la stessa intelaiatura della struttura scolastica sarà entro breve tempo in pericolo» (p. 19). Parole profetiche, se si pensa a quanto accaduto dagli anni Sessanta ad oggi.
Con questo libro, Molnar avrebbe voluto contribuire a realizzare una sorta di «rinascimento» e di reazione culturale nei confronti dei devastanti dogmi del progressismo: «La stessa essenza della civiltà è l’uso dei doni del passato per l’arricchimento della vita presente» (p. 26). Stando a quanto ricorda Marco Cimmino, il suo appello non è stato ascoltato, soprattutto in Italia. Le riforme scolastiche realizzate negli ultimi decenni nel nostro paese hanno creato, per usare un titolo di Galli della Loggia, l’«aula vuota», ed hanno indotto la scuola alla definitiva rinuncia al ruolo formativo. Le aule si sono trasformate in aree di parcheggio, mentre i giovani sono in attesa perenne di un’improbabile occupazione. Nelle aule italiane il merito è un fantasma ma, paradossalmente, resta l’unico strumento che, davvero, potrebbe garantire l’ascesa sociale dei meno privilegiati. Infatti, i figli delle famiglie abbienti, data l’insufficienza strutturale della scuola pubblica, hanno facile accesso ad altri istituti formativi, mentre i ragazzi in difficoltà economica sono costretti a ricorre esclusivamente all’istruzione di Stato, che non è più qualificante e penalizza sul mercato del lavoro.
A tale situazione hanno contribuito tutte le forze politiche che negli ultimi decenni si sono succedute al governo in Italia, comprese le cosiddette «destre», per le quali la scuola ha rappresentato l’ultimo dei problemi da risolvere. L’augurio è che la lettura de, Il futuro della scuola, possa far comprendere che l’emergenza educativa è problema politico essenziale del nostro tempo. In particolare per quanti si pongono, almeno a parole, quali difensori dello Stato e della Tradizione.
La scuola di Dewey rappresenta il peggio del peggio del capitalismo americano. Una scuola che forma degli Yes Man.