Pochi ricordano che all’abbrivio dei Sessanta Renzo De Felice tenne una serie di conversazioni radiofoniche pomeridiane per quello che all’epoca era il “Terzo Programma”. In una di queste si soffermò sulla politica antimazziana di Proudhon che tra gli «esponenti socialisti dell’immediato post-quarantotto fu certamente quello che ebbe più presa sull’opinione pubblica europea» (1).
Parte quindi da lontano l’avversione malcelata e ben veicolata che la storiografia marxista e comunista palesano rumorosamente ogni volta che si trovano a maneggiare senza cura il mito nazional-unitario del Bel Paese. «Da Mazzini a Mussolini, attraverso la nation building, da Carducci a D’Annunzio» (2) fino a Porzûs, Oderzo, le foibe, è un continuum di invettive apocalittiche contro tutto ciò che possa – anche solo involontariamente – difendere l’identità italiana o contribuire a ristabilire scomode verità occultate in nome di opportunismi di parte e, come tali, deprecabili in sede storica da qualsiasi parte essi provengano. Deplorevoli, cioè, da chi voglia discostarsi dalle vulgate imposte per semplice curiosità o in ossequio, se non alla ricerca storica, quantomeno alla buonafede.
In Italia la polemica antirisorgimentale fu prontamente importata da Alfredo Oriani e da Piero Gobetti che successivamente passarono il testimone ai loro “degni” epigoni. Questi fecero leva sul Discorso dell’Augusteo durante il quale Mussolini presentò il fascismo come continuatore del Risorgimento. Un passaggio squisitamente politico che fu subito strumentalizzato in chiave storica per veicolare una serie di polemiche, giustificare censure preventive, lanciare accuse di revisionismo – da che pulpito! – colpendo senza distinzioni di sorta i devoti di Clio, gli “eretici” del rigore storiografico, gli improvvidi difensori delle verità in senso assoluto e non politico.
Lo stesso Gramsci ne fece le spese: la censura attuata dal Pci delle pagine più risorgimentali dei Quaderni è un fatto acclarato. Il “fuoco amico” colpì, è noto, la prima edizione curata da Felice Platone sostituendola con quella del 1975 di Valentino Gerratana approvata da Georgi Dimitrov, il vice di Stalin.
All’epoca il Risorgimento «era oggetto di dinamico “revisionismo” da parte marxista-gramsciana» (3) e non di rado si raggiunse l’apice della follia: per Ernesto Ragionieri quella risorgimentale nemmeno sarebbe dovuta essere una materia di studio poiché intrisa di «irritanti agiografie»; Franco Molfese e Aldo De Jaco giunsero a riabilitare i personaggi del brigantaggio pur di delegittimare ciò che il fascismo aveva rivendicato. E via di seguito… fino ai giorni nostri è un continuo buttare “il bambino con l’acqua sporca” quando in ballo c’è la difesa di valori nazionali: proprio come oggi accade per la pagina di storia contemporanea italiana che si ricorda il 10 febbraio.
La ricorrenza, è bene ricordarlo, non è frutto di un’iniziativa politica, ascrivibile a interessi di parte, ma di una legge – la n. 92 del 30 marzo 2004 – che il Parlamento italiano ha approvato all’unanimità.
Essa istituisce una «solennità civile nazionale della Repubblica» – che invano si era tentato di creare nel 1995, nel 1996 e nel 2000 – volta a celebrare il «Giorno del Ricordo» in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli giuliano dalmati costretti ad abbandonare le loro terre dopo la cessione di Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia a seguito della sconfitta dell’Italia nella Seconda guerra mondiale.
Il primo anno in cui si celebrò la ricorrenza fu il 2005. La prima delle cerimonie solenni per il “Giorno del Ricordo” si svolse nel 2006 quando Carlo Azeglio Ciampi consegnò le onorificenze previste alla memoria alcuni parenti delle vittime delle foibe e la Medaglia d’oro al merito civile a Norma Cossetto, la «giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dai partigiani slavi, […] lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in una foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio» (4).
Da allora il “Giorno del Ricordo” è stato celebrato ma, al contempo, osteggiato da più parti – sempre le stesse –, che hanno regolarmente cercato di svuotare il significato storico, identitario e, soprattutto, condiviso della ricorrenza. “Condiviso” ancorché “condivisibile” poiché le vittime furono «non avversari politici o persone comunque compromesse con il regime fascista, ma uomini, donne e bambini per il solo fatto di essere italiani, e come tali da eliminare per cancellarne l’identità in una terra da cui sarebbe dovuta scomparire ogni memoria di italianità» (5).
Ciò è confermato dai documenti e dagli archivi, come quello dell’Esercito, nei quali si rivengono le tracce inconfutabili – per chi la storia vuole scriverla sporcandosi le mani di polvere e non leoneggiando comodamente da casa – della prima ondata di violenze a ridosso dell’Armistizio dell’8 settembre e delle successive. Nell’autunno del 1943 furono gli «italiani istriani» ad essere trucidati «dagli slavo-comunisti» nelle foibe di Pisino, Cregli, Vines, Terli, Treghelizzo, Castellier, Pucicchi, Surani e Carnizza e di «cadaveri di civili» furono svuotate quelle di Vescovado a Susnic e Semi tra il maggio 1944 e il gennaio 1945 (6). E la «relativa documentazione fotografica» dimostra che non andò diversamente anche nelle foibe di Gropada, di Sella di Montesanto, Trenovizza, Basovizza, Antignana, e Comeno (7).
Se non bastassero quelli italiani, anche gli archivi americani sono forieri di conferme in tal senso: l’inchiesta condotta da Earl Brennan fuga ogni dubbio residuo sul fatto che le violenze, inizialmente dirette contro esponenti del regime e proprietari terrieri, ben presto degenerarono «in una caccia indiscriminata contro chiunque fosse ricollegabile all’amministrazione italiana: dirigenti del PNF, carabinieri, podestà, ma anche maestri, avvocati, postini, farmacisti e commercianti» (8).
Il Rapporto della Special Intelligence Service del 30 novembre 1944 era piuttosto chiaro: «Dapprima i partigiani jugoslavi arrestarono i fascisti, ma più tardi operarono arresti indiscriminati, di massa, di centinaia di italiani. I prigionieri furono legati, messi nelle prigioni di Pisino, chiusi in celle sovraffollate, con poco cibo e molta sporcizia. Ogni notte, alcuni vennero portati via. Di recente, nelle foibe, le caverne dei Carso, fu scoperto un mucchio di cadaveri legati, nudi, qualcuno dei quali identificato dai congiunti» (9). E non andava meglio ai «soldati italiani in Jugoslavia […] in media, scompaiono oltre due italiani al giorno, si dice che siano mandati a morte certa» (10).
Di fronte a tali prove risulta piuttosto misero il ciclico tentativo di politicizzare la solennità civile del 10 febbraio. Uno sforzo – quello dei “pronipoti di Oriani” – che trae linfa vitale dal «calcolo opportunista di tanta sinistra italiana, che in nome di un machiavellismo da quattro soldi, destinato a ritorcersi contro se stesso, cercava di ignorare, dimenticare e far dimenticare il dramma dell’esodo istriano, fiumano e dalmata e gli eccidi delle foibe, affinché non si parlasse di crimini commessi dal comunismo o in nome del comunismo (in quel caso, di un nazionalcomunismo)» (11).
La lezione di Gramsci
«La verità – diceva Gramsci – deve essere rispettata sempre, qualsiasi conseguenza essa possa apportare, e le proprie convinzioni, se sono fede viva, devono trovare in se stesse, nella propria logica, la giustificazione degli atti che si ritiene necessario siano compiuti. Sulla bugia, sulla falsificazione facilona non si costruiscono che castelli di vento, che altre bugie e altre falsificazioni possono far svanire» (12).
E dunque i revisionisti moderni «rivedano perciò, rivedano pure; potrebbero anche pervenire prima o poi, chissà!, alla revisione del loro medesimo revisionismo» (13). Ma nel frattempo, sia consentito dedicare e rivolgere loro, le parole di uno dei loro capofila: «Basta con la manipolazione dei fatti storici» (14).
NOTE
1) Trasmissione registrata a Roma il 7 maggio 1960 e andata in onda il 10 maggio 1960 alle 18 sul “Terzo programma”.
2) G. Aliberti, I pronipoti di Oriani, in «Elite & Storia», a. III, n. 2, dell’ottobre 2003, p. 6.
3) P. Simoncelli, Revisionismo. Breve seminario per discuterne, Bari, Cacucci, 2015, p. 91.
4) Presidenza della Repubblica, Onorificenza a Cossetto Sig.ra Norma, 9 dicembre 2005.
5) Tribunale Penale di Roma, Sentenza emessa dalla Sezione per il riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale nei confronti di Motika Ivan e Piskulic Oskar, Roma, 2 luglio 1996.
6) Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (AUSSME), Fondo H8 Crimini di guerra, b. 16, fasc. 145 “Cartella 2”, 25 settembre 1943-2 settembre 1945.
7) Ivi, b. 20, fasc. 157 “Cartella 2”, settembre 1943-4 marzo 1948.
8) A.M. Mori e N. Milani, Bora. Istria, il vento dell’esilio, Venezia, Marsilio, 2018, p. 214.
9) National Archives and Records Administration (NARA), Office of Strategic Services (RG 226) 1940-1947, E (entry) 210, B. (box) 9, f. (folder) 6, Earl Brennan Chief Italian Section (OSS) SI to Director William Donovan, Report of Italian Section SI on Italy, Albania and Italo-Japanese. Report on Operational Activities and Political and Economic Intelligence, 1 to 30 November 1944, del 7 dicembre 1944, pp. 64-66 e ss.
10) Ibidem.
11) C. Magris, Le Foibe, silenzio e chiasso, in «Corriere della Sera», 1 febbraio 2005.
12) A. Gramsci, La conferenza e la verità, del 19 febbraio 1916, in Id., Sotto la mole 1916-1920, Torino, Einaudi, 1960, p. 31.
13) G. Aliberti, cit., p. 8.
14) A. d’Orsi, Basta con la manipolazione dei fatti storici, in «Micromega», n. 1 del 2204, pp. 69-80.