È la prima macchina vivente, quella fotografata dai ricercatori della Tufts University.
L’essere che galleggia, colpito da una luce quasi ultraterrena, non è infatti creatura, anche se fatta di carne. È ciò che accade quando, a un algoritmo, viene affidato il compito di assemblare cellule viventi.
Ogni cellula dell’esserino è fatta di rana; è infatti estratta – i ricercatori dicono harvested, raccolta, conferendo sapore agricolo al processo – da un embrione di Xenopus laevis. L’aggregato risultante, però, non assomiglia a un anfibio. È una cosa minuscola, più piccola della punta di uno spillo, grande 700 micron.
Non è neppure semplicemente una scultura fatta di materiali biologici, come ad esempio fece il collettivo SymbioticA già nel 2006 quando, dai laboratori dell’Università della Western Australia, creò delle installazioni ricavate da tessuti – sempre di rana – cresciuti fino a ricreare la forma di un orecchio umano.
La macchina vivente, invece, si può muovere in maniera autonoma, guarisce le proprie ferite e può sopravvivere per settimane.
I creatori si trovano qualcosa tra le mani di nuovo, e si trovano nello sforzo di descriverlo. “Non sono né un robot tradizionale, né una specie nota di animale – chiarisce uno dei ricercatori, Joshua Bongard – è una nuova classe di artefatto: un organismo vivente e programmabile”. La descrizione è chiara, ma non è ancora nome.
Ancora nel 2007, però, vi era stato dibattito sull’Open Organism, cioè sull’idea di poter liberamente modificare il genoma degli organismi, come viene fatto in informatica per i codici dei computer open source.
Ricercatori entusiasti dell’idea avevano perfino creato un concorso, l’International Genetically Engineered Machine competition, nel quale ragazzini modificavano il genoma dell’Escherichia coli come se fosse il codice di un videogioco.
L’idea che muove l’Open Organism è che i processi biologici siano complessi, ma non ci voglia una conoscenza esatta del loro funzionamento per modificarli ad un fine diverso.
I circoli di inventori della Silicon Valley ne hanno fatto un verbo: black boxing. Relegare a una scatola nera ciò che non si riesce a comprendere, e cercare comunque di fabbricarne qualcosa.
E così, senza eccessiva cognizione di causa, per non ostacolare il progresso, diventano realtà sempre nuove meraviglie geneticamente modificate: semi resistenti alla siccità, frutti ricchi di vitamine, piante che si difendono dai parassiti.
E però la prima macchina vivente non è nulla di tutto questo.
Si muove non grazie all’inventiva umana o a un modello ingegneristico, ma per l’opera di un algoritmo che, su un supercomputer, ha scimmiottato il processo evolutivo. Qualcosa di simile a quel che fece una scimmia cui venne data una macchina per scrivere e fogli da riempire in quantità…
L’algoritmo ha, infatti, proceduto per prove ed errori, così come nel paradigma riduzionista ha fatto la vita stessa.
Il risultato non è quindi un progetto, è soltanto uno degli infiniti modi possibili di tenere assieme la vita, almeno per qualche settimana.
Nessuno sa che cos’è, però, e tra gli stessi ricercatori si cerca di fugare l’inquietudine appellandolo con nomi buffi, ed è quindi uno dei suoi creatori, Sam Kriegman, a dire che si tratta di un “caviale che cammina”.
L’incapacità di dare un nome è però chiaro segno che questo esserino non è certo una delle creature delle quali Allah insegnò i nomi ad Adamo. E nomina – si sa – sunt…
Da Il Fatto quotidiano del 20 gennaio 2020