Non fui io a cercare Giampaolo Pansa, fu lui a cercare me. Gli era piaciuto un mio libro, dedicato alla Firenze della Ricostruzione dal 1944 al 1957, per la parte che riguardava, visti i suoi interessi dell’epoca, il passaggio del fronte. Un libro all’apparenza sfortunato, un po’ perché l’editore, che infatti in seguito avrebbe chiuso, non lo seguì che in parte, un po’ perché una brutta polmonite mi aveva impedito di controllare che mie ultime correzioni fossero riportate nell’impaginazione definitiva. Ma al tempo stesso un libro fortunato, perché, se vendette poche copie e ottenne scarse recensioni, mi valse un successo di stima da parte di alcune persone qualificate, dallo storico dell’architettura Carlo Cresti all’ex vicesindaco democristiano di Firenze Gianni Conti. Fra queste persone ci fu anche Pansa, che mi citò prima nel suo “I vinti non dimenticano”, poi in “Bella ciao”. Lo seppi quasi per caso, da un deputato di lungo corso di Alleanza Nazionale. “Lo sai che Pansa parla di te nel suo ultimo libro?” mi disse.
Io non leggevo i libri di Pansa, non per snobismo intellettuale, ma perché quello che scriveva lo conoscevo fin da ragazzo dalla pubblicistica neofascista e in particolare dai libri di quel geniale corsaro della penna che fu Giorgio Pisanò. E anche, debbo confessarlo, perché non mi piace ricordare certi frangenti dolorosi della nostra storia, ritornare su certi crimini, commessi dall’una o dall’altra parte: sono fra quanti auspicano, prima o poi, l’istituzione di un “giorno dell’oblio”.
La tragedia della cultura di destra
Avrei comunque dovuto inorgoglirmi, e invece quelle parole m’indispettirono. Non perché mi ritenessi più importante di Pansa, ma perché quello che voleva essere un complimento rifletteva tutta la tragedia della cultura di destra, o meglio della cultura a destra. Agli occhi di quel deputato, e di molti altri come lui, la fatica storiografica di un autore di destra assumeva valore solo se apprezzata e valorizzata da uno scrittore di sinistra. Il fatto è che il mondo neo e poi post-fascista è stato a lungo afflitto da ambivalente complesso di superiorità morale e d’inferiorità intellettuale nei confronti della sinistra. Chi si professava orgoglioso di avere reagito all’“ignobil otto di settembre” o di aver tenuto accesa la Fiamma sotto una pioggia di molotov negli anni di piombo riteneva che i libri sulla guerra civile valessero di più se a difendere il sangue dei vinti era uno che proveniva dalla parte dei vincitori. E infatti comprava i libri di Pansa, e non quelli di chi, da destra, diceva le stesse cose, salvo lamentarsi dell’egemonia culturale della sinistra. Naturalmente, mi faceva piacere che libri che mettevano in dubbio una certa vulgata avessero successo. Ma non potevo fare a meno di riflettere sulla tortuosità di quell’atteggiamento psicologico.
Il ricordo personale
Pansa, comunque, era molto migliore dei “pansisti”. Fu lui a cercarmi, credo per avere dei ragguagli sul mio libro, e mi colpì subito per la sua franchezza e la sua cordialità. Il passaggio dal “lei” al “tu” fu rapido, e non escludo che dietro la sua simpatia vi fosse una forma di solidarietà per le contestazioni che aveva incontrato una commemorazione di Almirante alla Versiliana organizzata con Romano Battaglia; in quel periodo, infatti, anche lui era reduce da altre, ancor più violente, contestazioni. Ma, al di là dell’inflazionato “tu” giornalistico, mi colpirono le sue confidenze, tutt’altro che scontate. Non è vero, infatti, che Pansa scrivesse nei suoi libri proprio tutto quello che sapeva. Per esempio, a proposito del fratello di un futuro presidente del Consiglio, finito a Coltano, mi confidò che non era vero che fosse partito militare perché costretto dal bando Graziani: si era arruolato come volontario. Altrimenti, dopo la guerra, non sarebbe stato chiamato di nuovo alle armi per il servizio di leva, come non venivano chiamati alle armi quelli che avevano combattuto nei reparti regolari.
Una volta trovai in una bancarella “Olga a Belgrado”, una raccolta di racconti di Irene Brin, una grandissima giornalista, che dopo gli esordi al “Lavoro” di Ansaldo e al mitico settimanale “Omnibus” di Longanesi, nel dopoguerra aveva scritto fra l’altro sul “Borghese” e poi, prima italiana, su “Harper’s Bazaar”. Erano racconti tristissimi, scritti durante l’ultima guerra e ambientati all’epoca della nostra occupazione della Jugoslavia. Non riuscii a finirli, tanto quelle storie di imboscate e mutilazioni dei nostri soldati da parte dei partigiani titini mi mettevano angoscia; conoscendo i suoi interessi, regalai a Pansa il volume, con le pagine ancora in parte intonse. E lui mi rispose parlandomi della Brin con una stima e una simpatia che non credo escludesse qualcosa di più di un’ammirazione solo professionale, nonostante la differenza d’età. Come si deduce da alcuni suoi libri a sfondo autobiografico, il giovane Giampaolo doveva essere un tipo “vispo”.
Conversando con lui, mi colpivano il rispetto e la simpatia con cui parlava di tanti ex repubblichini che avevano scritto di storia, come per esempio Pietro Ciabattini, che si vantava di essere stato ufficiale delle SS italiane, e anche di studiosi di storia che simpatizzavano per la Rsi, come Luca Tadolini, che lo difese quando la presentazione di un suo libro il 17 ottobre 2006 a Reggio Emilia era stata oggetto dell’assalto di un gruppo di militanti dei centri sociali. A volte lui, che proveniva da sinistra, esprimeva su di loro un giudizio più favorevole di me. Credo che tale atteggiamento fosse dettato anche dalla gratitudine per gli autori che gli fornivano per i loro scritti, spesso autoedizioni in piccole tirature, materiale prezioso per i suoi libri, che invece vendevano moltissimo. Ma la gratitudine non è un sentimento diffuso fra i giornalisti e Pansa aveva, tra l’altro, l’onestà intellettuale di citare sempre le fonti, onestà sconosciuta a tanti accademici abituati a utilizzare le ricerche dei loro laureandi senza nemmeno degnarli di una nota a piè di pagina, e anche a tanti giornalisti improvvisatisi storici, che fanno opera più di divulgazione che di ricerca.
Pur avendo percorso una straordinaria carriera di giornalista, Pansa infatti era nato storico. Si era laureato con 110 e lode in Scienze politiche con una tesi intitolata “Guerra partigiana tra Genova e il Po”, che era stata in seguito pubblicata da Laterza dopo aver ottenuto il Premio Einaudi. Sapeva per questo che le note a piè di pagina non sono solo esornative e che i libri che si citano nella bibliografia finale devono essere stati effettivamente letti, per non correre il rischio in cui incappò un per altro brillante divulgatore che citò “Il manganello” di Pietro Aretino in un saggio sullo squadrismo. Per questo dava ai suoi libri un’impostazione più narrativa e dialogica che accademica, anche se le affermazioni che faceva e le notizie che forniva non sono mai state seriamente smentite.
È stato detto che la sua insistenza sul tema del “sangue dei vinti” fosse dettata dal desiderio di sfruttare un remunerativo filone editoriale, ma certo Pansa, che nei primi anni del primo decennio del nuovo secolo era al culmine del successo, non aveva bisogno né di notorietà né di soldi, senza contare gli ostracismi e le scomuniche che i suoi libri gli valsero da una sinistra rancorosa e intollerante. È stato anche ricordato che, accanto al sangue dei vinti, esiste pure il sangue versato dai vincitori, ed è vero, ma su questo sangue esisteva già da tempo una vastissima letteratura. E resta il fatto che, in un paese civile, tutte le tombe dei caduti meritano un fiore, a prescindere dalle divisioni di parte, così come merita un fiore la tomba di Giampaolo Pansa, l’uomo che con i suoi libri depose una rosa sulla memoria dei vinti di Salò, a costo di pungersi con qualche spina.