La morte di Roger Scruton, il più grande filosofo conservatore contemporaneo, avvenuta il 12 gennaio, all’età di 75 anni (era nato il 27 febbraio 1944 a Buslingthorpe, nel Lincolnshire, dove si è spento), non ci ha colti impreparati. Sapevamo da sei mesi del terribile male che lo lo aveva aggredito, ma la speranza di rivederlo, magari in Italia, Paese che amava, era sempre viva. Con lui se n’è andata una delle voci più alte del pensiero critico contemporaneo. Anni fa il “New Yorker” lo definì il “più influente filosofo contemporaneo”.
Fondatore e redattore della rivista trimestrale conservatrice The Salisbury Review, Scruton ha scritto oltre 50 libri su filosofia, arte, musica, politica, letteratura, cultura, sessualità e religione. È stato autore anche di romanzi e di due opere musicali. Tra le sue sue pubblicazioni più importanti ricordiamo (tradotte in italiano) Guida filosofica per tipi intelligenti, L’Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica, Manifesto dei conservatori, La cultura conta, Bevo dunque sono. Guida filosofica al vino, La Bellezza, Il suicidio dell’Occidente (libro-intervista curato da Luigi Iannone), Il bisogno di nazione, Essere conservatore, Confessioni di un eretico. Ha collaborato regolarmente con “The Times”, “The Spectator”, “New Statesman”.
Scruton abbracciò il conservatorismo nel 1968, a 24 anni, come reazione alla contestazione, nel segno di Burke e di Elliott. Poi intraprese una brillante carriera accademica, e negli anni Ottanta contribuì a stabilire rapporti con i dissidenti dell’Est europeo, attività per la quale gli venne conferita da Vaclav Havel la medaglia al merito della Repubblica Ceca.
La rivista “Salisbury Review” cercava di fornire una base intellettuale per il conservatorismo ed era fortemente critica nei confronti delle questioni socio-culturali, tra cui la campagna per il disarmo nucleare, l’egualitarismo, il femminismo, il multiculturalismo e il modernismo. Scruton la scriveva quasi da solo, aiutato da pochi collaboratori, usando numerosi pseudonimi. Con la sua vasta produzione intellettuale Scruton dimostrato di essere un conservatore reattivo e proiettato verso l’avvenire, ovviamente senza rinnegare il passato, o meglio rivendicando la forza della Tradizione, rispetto agli stravolgimenti che il politically correct ha prodotto nelle società affluenti rendendo l’ideologia egualitaria il parametro di riferimento comportamentale collettivo ed individuale.
In particolare con Essere conservatore offre una sorta di “vademecum” non soltanto ad uso dei conservatori stessi in senso stretto, ma soprattutto a beneficio di chi li denigra aprioristicamente. E ribadisce che “le persone hanno bisogno di radici senza le quali invecchiano e poi muoiono”.
A tal fine Scruton passa in rassegna tutto ciò che non va nel vecchio Occidente per potersi difendere e proporsi ancora come motore di storia. Scrive: “Il conservatorismo che io professo afferma che noi, in quanto collettività, abbiamo ereditato delle cose buone e dobbiamo sforzarci di conservarle”. Quali sono? La Tradizione, la concezione organica della società, la ricostruzione di una comunità fondata su valori non negoziabili. Alle classi dirigenti Scruton si rivolge, sia pure indirettamente, esortandole alla difesa delle specificità e delle differenze contro l’indifferentismo ed il relativismo culturale. E ribadisce, inoltre, che lo Stato-nazione, dato per morto dagli universalisti, è la garanzia primaria dell’ordine civile, politico e culturale verso il quale tendere. Così come non si può prescindere dal restaurare la concezione della bellezza a fronte di una tecnologia invasiva e totalitaria. L’indole conservatrice, sostiene, “è una proprietà acquisita delle società umane ovunque si trovino”. Disperderla, come sta avvenendo, è un crimine contro noi stessi.
Il tracollo degli Stati nazionali, almeno in Europa, è risultato evidente negli ultimi anni quando le istituzioni comunitarie hanno inteso affrontare la crisi delegittimando ulteriormente i governi nazionali piegati alle logiche tecnocratiche di Bruxelles e di Francoforte. E si è cominciata a fare strada la considerazione che la fedeltà alla propria comunità è certamente prioritaria rispetto a quella di chi agisce in assenza di un vincolo nazionale. Che ciò porti alla scoperta di un neo-patriottismo è ovviamente prematuro per sostenerlo ancorché auspicabile. Ed in questo spirito va letto il volume di Roger Scruton, Il bisogno di nazione (Le Lettere), contributo rilevantissimo alla riscoperta dell’idea di nazione in chiave democratica e come elemento fondante il governo del popolo costituzionalmente riconosciuto da coloro che vivono su uno stesso territorio e nutrono un attaccamento al sentimento dell’appartenenza, al di là dei fattori etnico-religiosi che contribuiscono la falsare la nozione stessa di nazionalità esaltando piuttosto il tribalismo e l’intolleranza.
Perciò le istituzioni sovranazionali che abusano del potere di delega, secondo Scruton minacciano seriamente l’indipendenza dei popoli e allo Stato nazionale, che pure ha bisogno di essere migliorato nelle sue strutture, e, dunque, per lui non v’è alternativa a meno di non voler diventare genti prive di autonomia e spodestate delle prerogative storico-territoriali che ne hanno legittimato l’esistenza. Insomma, la suggestiva difesa della nazione da parte di Scruton, è una lezione di sano realismo in tempi in cui l’avversione dello Stato nazionale e, più in generale, il rifiuto della stessa idea nazionale sono largamente diffusi e riflettono uno stato d’animo che Scruton definisce “oicofobia” cioè la tendenza che in qualsivoglia tipo di conflitto si denigrano usi, costumi, istituzioni , cultura “nostri” ripudiando così la lealtà o la fedeltà nazionale, prendendo sempre e comunque le parti di organismi transnazionali supportandone le direttive, come capita, per esempio, quando si sostengono sempre e comunque le decisioni dell’Unione europea o delle Nazioni Unite.
L’appassionata difesa della nazione Scruton la completa con un lucido atto d’accusa allo “Stato mercato” che concepisce il legame tra cittadino ed istituzioni come un contratto dal quale il primo si attende benefici in cambio di obbedienza. E’ l’anticamera del totalitarismo moderno. Il trionfo del relativismo culturale applicato alla sfera della politica. Il bisogno della nazione implica coscienza identitaria e cultura dell’appartenenza. Su questi pilastri si reggono comunità capaci di affrontare le minacce del dispotismo e dell’anarchia.
*Da Il Dubbio del 13.01.2020
“Il conservatorismo che io professo afferma che noi, in quanto collettività, abbiamo ereditato delle cose buone e dobbiamo sforzarci di conservarle”. Quali sono? La Tradizione, la concezione organica della società, la ricostruzione di una comunità fondata su valori non negoziabili. Alle classi dirigenti Scruton si rivolge, sia pure indirettamente, esortandole alla difesa delle specificità e delle differenze contro l’indifferentismo ed il relativismo culturale. E ribadisce, inoltre, che lo Stato-nazione, dato per morto dagli universalisti, è la garanzia primaria dell’ordine civile, politico e culturale verso il quale tendere. Così come non si può prescindere dal restaurare la concezione della bellezza a fronte di una tecnologia invasiva e totalitaria. L’indole conservatrice, sostiene, “è una proprietà acquisita delle società umane ovunque si trovino”:CHE MERAVIGLIA LEGGERE QUESTE COSE. Ma l’articolo nel suo complesso è stupendo, assolutamente da incorniciare. Un grazie all’autore. L’oicofobia è la malattia dell’Europa e dei suoi popoli di oggi. Non c’è cosa peggiore del ripudio di sé stessi, della propria identità (soprattutto etnorazziale), della propria storia, delle proprie tradizioni e della propria cultura, fatto in nome di un concetto errato di modernità, che in realtà è modernismo, e si tratta solo di demolire tutto ciò che è passato, anche le cose buone, invece di correggere le storture che pure in passato esistevano, seppur poche. Noi occidentali di oggi facciamo veramente schifo.