Se “Nessuna croce manca” è stato il canto di una generazione che si è ritrovata vittoriosa, a dispetto e (quasi) onta di se stessa e dei suoi sogni, sotto le mura inespugnabili della Troia primorepubblicana, il nuovo romanzo di Angelo Mellone, “Fino alla fine” (Mondadori) può ben rappresentare il reditu o meglio ancora il nostos per eccellenza: il rientro a Itaca di quella stessa generazione.
Il racconto della formazione e della gioventù di Claudio, Dindo, Chiodo e Gorgo ha per cornice cieli tersi. E seppur piove, il sole non manca mai di tornare. Nella distopia tarantina, invece, la volta non è più celeste ma grigia, carica di nembi oscuri e sconosciuti: un’atmosfera quasi da fumetto in stile Blade Runner.
In “Nessuna croce manca”, la provincia è povera ma bella e ispira la nostalgia d’una sera d’estate, Roma è una cartolina seppia che nasconde una città morente, autocrogiolantesi nei salotti borghesi dalle visioni corte o nel rimpianto di una gioventù che scappa via. Dimentica di sé, impossibilitata a null’altro che a un’eternità di selfie prestati ai turisti, l’Urbe si perpetua automummificandosi, come un monaco orientale si rendeva eterno col rito del sokunshibutsu. Berlino, finalmente libera dal muro, quella sì che è un sogno.
In “Fino alla fine”, Roma è un ventre morto e verminoso. Taranto è una trincea. Una città che crolla su se stessa, in cui la concordia è spazzata via dalla paura, dalla rabbia, dal rancore. Vibra di tensioni, su di lei ragni tessono tele, amicizie e alleanze improbabili eppure reali come la contemporaneità. Dimentica della lezione antica secondo cui la morte, vieppiù quella di una città, chiama solo altra morte, crede che solo radendosi al suolo potrà rinascere. Un muro nuovo, cementato dalla “pasta invicibile e molle dell’odio”, s’erge attorno al Siderurgico. Questo sì che è un incubo.
Ognuno di loro è un’anima, perduta, che ha esorcizzato i sogni della sua gioventù. Claudio, la destra istituzionale; Dindo, l’intellettuale; Gorgo, quella borghese e Chiodo, la destra popolare e underground. Il percorso di ognuno di loro è diverso. Siamo o no in quella che un visionario quale fu Tomaso Staiti di Cuddia profetizzò come “la fase jugoslava” della destra italiana? E così Claudio finisce nel partitino stampella del governo tecnico, Dindo fa l’eretico di professione, Gorgo si è rifatta una vita, soffocandosi, da giornalista locale e Chiodo, insoddisfatto di Roma e della sua scena, ha scelto di tornarsene a Taranto e diventa il braccio “armato” dell’ambientalismo. Pur nella diversità delle scelte, nel deteriorarsi dei rapporti, nel “tradimento” compiuto da ciascuno (forse, come ha affermato proprio l’Autore, solo Chiodo resta fedelissimo ma “finisce male”), sono tutti e quattro una sola cosa. Ancora e nonostante tutto. S’odia quando troppo s’è amato e si ama se, oltre all’ideologia, si è qualcuno, si ha la libertà e il coraggio di scegliere a quali regole obbedire. Nonostante il tradiumento, anzi forse proprio dalla consapevolezza di questo emerge il riscatto. Tutti capiscono di rispondere allo stesso codice che oggi si direbbe etico, meglio sarebbe definirlo d’onore.
Taranto, intanto, è lì. Non è una città qualsiasi. Ogni città, soprattutto al Sud, è la Taranto di Mellone. La distopia parte sempre dal reale. Ne è il compimento paradossale. La realtà che viviamo, però, ci ha svelato che non c’è più limite: nemmeno quello del paradosso stesso. Perché quando manca una visione, la politica si assenta e persegue in maniera spregiudicata il consenso, cavalca tigri ferocissime e alliscia l’affarismo più sfrontato, scordandosi la lezione manzoniana dell’assalto ai forni e i suoi doveri minimi. L’ipersemplificazione, il rifiuto della complessità fa il resto e radicalizza il confronto che si fa guerra vera: o si è dentro o fuori, o con noi. Una lotta fraticida, che si autoalimenta di odio, di rabbia; non si fanno sconti, non di guarda in faccia a nessuno. Si va avanti fino alle estreme conseguenze, “Fino alla fine”, appunto. È ormai inutile, troppo tardi, provare a spiegare e spiegarsi, come sibila l’alto dirigente del ministero a Claudio: gli animi sono così esacerbati che si presta ascolto solo a ciò che si è deciso, autonomamente, sia la verità. E che magari sia debitamente sintetizzato in uno slogan efficace e breve. Un epitaffio, l’ennesimo, sulla lapide della politica.
È un monito, il romanzo e lo è anche il destino di Claudio, Dindo, Gorgo e Chiodo. A recuperare una concordia civile che, per Mellone, passa necessariamente attraverso la ridefinizione di un idem sentire. Simboli rendono uomini divisi un popolo solo. Non c’è simbolo migliore del lavoro, che definisce individui e comunità. Lavorare non solo per perseguire il benessere, sacrificarsi per dare ai figli un futuro migliore ma per dimostrare chi si è al mondo, per dare un senso alla propria esistenza. Questa, in fondo, è l’essenza del “made in Italy” di cui (ancora e nonostante tutto) ci si fa vanto oltre i luoghi comuni.
È un monito, il romanzo anche per chi lotta, soprattutto per chi lo fa in maniera ingenua, sia detto e inteso in senso etimologico: pura e disinteressata, nobile. Per costringersi, prima di augurare la morte a qualcuno magari sui social, a fermarsi a riflettere. Il virtuale predomina, perde quota il realismo. Slogan e chimere ci sono da sempre, oggi sappiamo che alcune di queste non sono realizzabili, per quanto affascinanti. Ma chi la sapeva lunga, come appunto Ulisse, nel decidere di ascoltare il canto delle sirene impose ai suoi compagni di legarlo solidamente all’albero maestro della nave. Per farlo, per tornare a Itaca degnamente occorre riprendersi il mano il proprio destino. E lo si fa disegnandolo, non facendoselo imporre dal marketing elettorale, dalle mode del momento, dai bocconi avvelenati.
Prima di aderire a un proclama, meglio sedersi a parlarne con gli amici fidati, quelli di sempre. Regolare i conti, magari: nel chiuso di una stanza darsele di santa ragione o abbracciarsi: ristabilirsi, ritrovarsi. Perdonarsi i reciproci tradimenti. “Uniti si vince”, non è solo un coro da stadio né un auspicio da campagna elettorale di paese. Mai più perdersi di vista, mai più accettare caramelle dagli sconosciuti. Prima o poi si paga il conto. E sarà salato.
* “Fino alla fine” di Angelo Mellone, pp.516, euro 21, Mondadori
In questa recensione,semplicemente, non si capisce niente.
In effetti sarebbe opportuno mai discortarsi dalla logica che, piu chiaro e semplice è, qualsiasi cosa vale il doppio… I grandi come Tolstoj o Hugo, Montanelli, Ojetti o Barzini sr. scrivevano per essere capiti da tutti…
Mi rimane il gran dubbio di sempre. In un meridione come il nostro, praticamente deserto di spirito imprenditoriale, con una logica statalista, assistenzialista, non capitalista, ha avuto senso, ed ha tanto meno ancor senso, parlare di una “cultura industriale”, che lì è solo somma di fallimenti, vivaio di sottoprodotti del più che mediocre politicume nostrano? Forse non servirebbe una signora Tachcher?
Thatcher, ovviamente…
Roma era già morente nel 1870, quando il popolo romano era prevalentemente composto da preti, nobili ignoranti, servidorame, teppaglia e briganti, come ricorda il Belli. Era entrata in una lunga agonia già dopo il Sacco del 1527, probabilmente. Non erano i miraggi della “Terza Roma crispina” a resuscitare una ‘Terra di Morti”, piaccia o no… La capitale mai avrebbe dovuto abbandonare il Nord. Tanto meno servì a Roma l’Impero di cartapesta del Duce…Quando si prenderà atto che una capitale infetta, pigra, levantina, è il compendio del peggio d’Italia, non di energie positive?
Il solito polpettone pretestuoso assemblando fantasie,il bel scrivere su Barbadillo,appartiene a P.Isotta.Tutt’altro stile ma di assoluto valore appartiene a D.D.Novellini.In qualche modo mi ricorda CELINE.. Ovviamente gusti personalissimi..