Siamo quello che mangiamo. In questa parafrasi del famoso assioma di Feuerbach, c’è tutto un universo di valori materiali e spirituali dai quali si dispiega l’essenza delle varie civiltà umane che si sono succedute nella storia.
Nonostante le commistioni proposte dall’arte culinaria d’élite di questo nostro tempo individualista ed apolide, la dimensione comunitaria intrinseca nella cultura e nell’atto del mangiare non sfugge a nessuno: una bella tavola imbandita di cibi e di vini rimanda immediatamente a un momento di socializzazione.
Non è un caso che nella paidèia spartana le sistizie, i pranzi comunitari degli spartiati, giocassero un ruolo decisivo nella costruzione dello spirito di corpo che era la forza della falange oplitica. Così come non è un caso che, per rafforzare il senso di appartenenza alla collettività monastica, nella Regola benedettina il pranzo comune fosse ritenuto un elemento decisivo.
Il cibo non serve solo a nutrirsi. Costruisce un gusto, una cultura, un’identità. E’ dalla tavola che si parte per definire un’educazione, che poi è quella costruzione intellettuale che ci permette di stare insieme, di con-vivere e che, essendo un paradigma attraverso cui interpretiamo il nostro essere-con-gli-altri, è tanto più efficace quanto più è delimitato. L’anima profonda dei popoli ne è istintivamente consapevole e proprio per questo motivo, all’affacciarsi della globalizzazione negli anni Novanta, furono proprio i suoi simboli gastronomici (pensiamo al McDonald’s o alla Coca Cola) ad essere presi di mira da chi la contestava.
In effetti al cibo è indissolubilmente legato, prima ancora del concetto di Nazione, quello che i tedeschi chiamano Heimat, la “terra natìa”, quella più originaria, a cui sono legati i ricordi dell’infanzia, della famiglia e delle prime amicizie, le esperienze e le emozioni che ci hanno formato per quello che siamo nel profondo. Lo sanno bene i vecchi quando ritornano con la memoria ai loro primi anni di vita e ritrovano nel proprio intimo le sensazioni vissute all’epoca.
In quelle atmosfere – che inevitabilmente sono fatte di immagini, suoni, odori – il cibo è centrale.
Indagare la cultura gastronomica, difendere le produzioni alimentari tipiche, proporre modelli alternativi a quelli mondialisti standardizzati, non significa definire i contorni di un sovranismo alimentare, rimanda a qualcosa di ancora più autentico e prezioso da valorizzare e difendere.
Nel nostro viaggio, in questo numero di dicembre, tra i cenoni natalizi delle venti regioni italiane, abbiamo incontrato non solo le prelibatezze della cucina nostrana, ma anche usanze, tradizioni, riti, linguaggi. Nell’Italia delle mille patrie la nostra identità culturale è, infatti, composta anche e soprattutto dai dialetti.
Oltre ai colori, ai profumi e ai sapori, ci sono i suoni, che sono quelli antichi, diremmo ancestrali, delle lingue parlate dai nostri avi, che resistono nelle denominazioni dei piatti tradizionali, spesso di origine contadina.
Davanti a noi si dipana così un mosaico, pieno di sfaccettature, che diversifica la nostra identità formatasi sotto i campanili delle chiese in cui viene celebrata la Messa della Vigilia, nei campi dove venivano coltivati i cereali, i legumi e gli ortaggi che compongono la dieta mediterranea, in riva ai mari battuti dai pescatori armati di reti e di sapienza astronomica.
Ecco che la bellezza dei nostri monumenti e paesaggi, la ricchezza della nostra storia, si riempie di umanità: quell’umanità umile, ma ricolma di fantasia, che ha ideato i tortellini e l’insalata di rinforzo, il panettone e gli struffoli napoletani, i mille modi di celebrare la nascita del Bambino Gesù e quelle espressioni caratteristiche, apprese in famiglia, dai nonni, proprie delle lingue dialettali.
Dallo Strapaese culinario ecco comporsi dinanzi a noi l’italianità e lo straordinario modo di vivere che tutto il mondo ci ammira.
*Da CulturaIdentità di dicembre 2019
Sì, ma dialetti e cibo non sono vera cultura, sono usi, consuetudini, abitudini… Cultura è altra cosa, altrimente anche “rubare” diventa cultura per qualcuno…
I dialetti sono cultura. Sono l’elemento unificante e l’espressione di una comunità. Almeno lo erano.
Se pensiamo ad un Belli, ad un Viviani a Buttita,ad un Pasolini o a Costa non possiamo che fare la considerazione che un dialetto può diventare espressione non solo di un territorio ma diventa cultura , proprio perché , tocca corde comuni.
Da quando un vino non è cultura?
Da quando a tavola hai smesso di studiare la storia?
Perché a Trapani fanno il cous cous?
Perché c’è il goulash alla triestina o perché in Piemonte si mangiano le acciughe al verde?
Felice perchè dici che i dialetti ed il cibo non sono vera cultura? I dialetti sono vere e proprie testimonianze non solo linguistiche, ma appunto culturali, identitarie, storiche etc stessa cosa vale per il cibo, un piatto tradizionale racconta tantissime cose, i primi libri di cucina nacquero nelle case nobiliari e mettevano per iscritto ricette tramandate per anni se non secoli, magari all’interno di una stessa famiglia… In fondo quello che tu chiami usi, consuetudini non è altro che la nostra identità che appunto si tramanda, e non parlo nemmeno in generale di un identità italiana(che ammettendo che esista è davvero recente), ma di quella veneta, piemontese,napoletana, siciliana etc etc è proprio questo ciò che invece costituisce quello che i tedeschi chiamavano volk e gli inglesi folk,con connotazione più ampia della nostra parola popolo,i concetti di cultura ed identità vanno di pari passo e bisogna distinguere dalla cultura accademica a cui tu forse ti riferisci parlando di “vera cultura” e la cultura come immaginario e complesso tradizionale di un popolo, io penso che a questo si ci riferisca in questo caso, anche perchè a volte è proprio il folclore popolare che anche inconsapevolmente ed anzi proprio per questo è riuscito a tramandare espressioni e conoscenze culturali molto più alte provenienti dal passato e adattati di epoca in epoca alle contingenze storiche. In fondo è il caratteristico genius loci di ogni territorio a costituire ancora l’essenza stessa di quel poco che è rimasto di cultura italiana, la difesa di questa identità strapaesana dovrebbe essere di importanza primaria se si vuol salvare qualcosa di questo paese che vive ancora, nella sua parte più sana, propria nella provincia tanto bistrattata soprattutto a sinistra(le sagre, il cibo, le feste di patrono, il dialetto etc etc).
Sono rom. Rubo perchè è parte essenziale della mia cultura. Meno mia moglie ed i figli perchè è parte fondamentale della mia cultura. Vivo in un porcile perchè è parte della mia cultura, così come non lavorare. Non voglio che i miei figli studino per preservarne l’identità.
Adesso la tarantella e le ‘anciu-e al verd’ sono cultura, alla pari della Pietà di Michelangelo, dell’Orlando Furioso, della Divina Commedia, dei Discorsi alla Nazione tedesca di Fichte, della cupola di Santa Maria del Fiore, degli antibiotici e dei trapianti… Sputare per terra no?
Stefano. Semmai Völkisch, che però è un concetto più ampio, anche se dai contorni incerti…
Non esiste la cultura accademica e la cultura popolare. La cultura è una sola, ma per evitare che anche ‘scorreggiare rumorosamente in pubblico’ possa essere interpretato da qualcuno come ‘manifestazione culturale’, occorre delimitare il campo, non metterci di tutto…
Guidobono Mi sembra di avertelo già detto che il tuo essere bastian contrario è solo solipsismo pseudo culturale. Dico pseudo perché l’uomo di cultura ha sicuramente più elasticità ed apertura di te. Non basta studiare su Google per tirare giù due righe ( quello al limite è nozionismo)
Una volta eri anche divertente
Si certo la parola ed il movimento Volkish trae origine proprio da tutto quello spettro di accezioni di cui parlavo,però in quel caso mi riferivo proprio alla parola volk come radice di tutto il resto, una radice tipicamente indoeuropea che infatti rimane praticamente identica in tutte le lingue come in folk ma anche volgo in italiano, vulgus in latino,polk in russo, volk e folk nel resto delle lingue scandinave…
Felice quello che intendevo in linea di massima era dire che “l’interesse profondo che tutte le tradizioni dette popolari presentano,sta soprattutto nel fatto che esse, in origine, non sono affatto popolari…Il popolo conserva dunque, senza comprenderli, residui di tradizioni antiche,
risalenti talvolta persino a un passato così lontano, che sarebbe impossibile determinarlo… esso[il popolo], a tale riguardo, ha la funzione di una specie di memoria collettiva più o meno “subcosciente”, il contenuto della quale le è manifestamente venuto d’altrove. ”.
Stefano. Non stai, scusami, dicendo nulla. Ovvio che il popolo sia sempre ed ovunque esistito e che abbia sviluppato credenze, conoscenze, abilità, abitudini sedimentate, costumi e tradizioni ecc. che sono state sostrato ed arricchimento della ‘cultura’ più elevata, quella un tempo scritta e poi spesso definita, a torto, “accademica”. Ma non possiamo mettere tutto nello stesso calderone, per non annullare il senso stesso di cultura, non banalizzarla all’eccesso, non assimilarla e farne patrimonio ai/dei “diversamente ignoranti”… Un esempio: Tommaso d’Aquino, un prete di campagna, una beghina analfabeta: tutti e tre si collocano nella prassi di vita e di cultura cattolica. Sono forse uguali? Buona domenica!
Valter. Non leggermi e non sfrucugliare!
Accetto il tuo consiglio
È più interessante leggere l’etichetta dell’ acqua minerale( non dico vino)