Andrea Illy, sì proprio quello del caffè con un passato di politica ovviamente a sinistra, ha deciso che l’Italia deve fare a meno della produzione di acciaio.
Un’attività obsoleta, che non ha più chances di essere competitiva a livello globale, e che dovrebbe essere sostituita da nuove produzioni di alta gamma.
Non è una posizione nuova, la sua. Ed è auspicata da molti e da molto tempo. Peccato che il sogno si sia scontrato con la brutalità della realtà. Perché non è chiaro chi dovrebbe assumersi i costi, colossali, della trasformazione, della rivoluzione industriale. Il signor Rossi con una Pmi che produce bulloni non può trasformarsi in uno stilista di moda dall’oggi al domani. Gli operai metalmeccanici non si possono convertire in informatici di primo livello con un colpo di bacchetta magica.
Gli altoforni non diventano distese di ulivi solo perché il boss del caffè lo ha stabilito. Ed anche elevare i livelli qualitativi delle produzioni avrebbe un costo che pochi sono in grado di affrontare. A prescindere dalla mancanza di volontà di cambiamento di una consistente parte dell’imprenditoria italiana. Perché per alzare il livello della qualità occorrono investimenti materiali in azienda ed immateriali sulla preparazione dei lavoratori.
Peccato che i lavoratori più qualificati abbiano poi la pretesa di essere pagati in modo adeguato, consono alla preparazione. Insensibili alle necessità del padronato di acquistare nuove ville e yacht.
Ma poi il compagno/padrone Illy ammette che per salvare Alitalia ed Ilva servono grandi gruppi stranieri. Dunque il problema non è nelle regole, perché quelle sono identiche per investitori italiani e stranieri. Non è nel costo del lavoro, nei ritardi della giustizia (e nella sua inaffidabilità), nelle carenze logistiche ed infrastrutturali, nella mancanza di fiducia. Tutti problemi reali, ma uguali per tutti coloro che vogliono operare in Italia.
Il problema è che l’Italia non ha più grandi imprese. Perché i grandi predatori nostrani hanno preferito vendere piuttosto di investire per crescere. E le aziende sono diventate americane, francesi, tedesche, cinesi. Con imprenditori stranieri che in Italia hanno investito dimostrando che si poteva fare impresa anche in Italia.
Salvo, poi, chiudere tutto quando trovavano condizioni più favorevoli in altre colonie da sfruttare. Sono i rischi del capitalismo apolide. Che se ne frega di territorio e del futuro dei lavoratori. I colleghi di Illy, in pratica. Che oscillano, nell’arco di pochi giorni, dal consiglio di rinunciare all’Ilva al consiglio di salvarla facendo intervenire altri capitali stranieri. Tanto, per digerire i cambiamenti di programma ed i licenziamenti, si può sempre prendere un buon caffè. Lavazza, ovviamente. (da ElctoRadio)
La posizione espressa da Illy è la stessa che da almeno 20 anni sostengono numerosi sedicenti economisti e accademici. Quelli che dicevano che l’apertura dei mercati alla Cina sarebbe stata una grande opportunità per le nostre imprese, e invece dopo l’ingresso di quel paese nel WTO del 2001, sono state travolte dalla concorrenza delle imprese cinesi e costrette a chiudere i battenti. Adesso che il danno è fatto, questi stessi non demordono e ci dicono che noi dobbiamo abbandonare determinate produzioni industriali e lasciarle ai paesi emergenti come Cina, India, Turchia, Indonesia, ecc., perché sono più competitivi e sostengono un costo del lavoro che è un 1/10 di quello nostro. E la cosa più paradossale, è che coloro che sostengono queste tesi, sono coloro che si professano di sinistra, quando in realtà non dovrebbero sostenerle affatto, dato che i paesi emergenti godono di costi di produzione più bassi dei nostri perché i lavoratori – dalla cui parte dicono di stare – vengono sfruttati, malpagati e non hanno diritti sindacali. La globalizzazione ha di fatto sdoganato lo sfruttamento del lavoro, che in paesi come Bangladesh, Pakistan e Vietnam, ha come vittime anche i bambini, impiegati per fabbricare scarpe indossate da calciatori milionari. Tutto ciò è un crimine, perché tale pratica viene considerata “normale”, e la globalizzazione, infatti, anziché estendere una cultura etica del lavoro fondata sul rispetto dei diritti umani e delle tutele sociali, sta portando di fatto alla diffusione del modello vigente nei paesi emergenti, che potete star certi, tra non molto arriverà pure da noi. Non è un caso infatti che sono tutti pro-immigrazione selvaggia.