L’editoriale del mensile Cultura Identità in edicola a novembre, di Alessandro Sansoni
La difesa dell’ambiente è una questione troppo seria per lasciarla nelle mani di Greta e del circo mediatico orchestratole intorno. Potremmo dire che quello dell’ecologia è il tema con il quale dovrà dimostrare di essere capace di misurarsi nel XXI secolo il mondo occidentale e non solo.
Una certa consapevolezza diffusa dovrebbe confortarci e lasciare spazio all’ottimismo, ma ci sono alcune tare intrinseche alla vulgata ambientalista così come è andata sviluppandosi del Club di Roma del 1968 fino ad oggi che spingono a ritenere che il lavoro da fare sia ancora molto.
E’ il paradigma di civiltà che, infatti, va messo in discussione. Cominciamo dall’argomento del giorno: il surriscaldamento climatico. I giovani di Friday for Future, gli Stati e le organizzazioni internazionali che li vezzeggiano, partono dall’assunto che esso sarebbe causato dall’essere umano e dalle sue attività industriali e produttive. Per risolvere il problema occorrerebbero nuove tecnologie industriali, solo meno inquinanti.
Una parte consistente e autorevole del mondo scientifico, però, ci ricorda che il nostro pianeta, nel corso della sua lunghissima storia, è stato già interessato da profondi sconvolgimenti climatici e questo a prescindere dall’azione dell’uomo. La pretesa che da esso possa dipendere il destino della Terra dimostra che i movimenti ecologisti pensano e agiscono secondo i canoni della modernità e credono che l’umanità’ sia in grado di modellare il mondo secondo il proprio volere e le proprie esigenze, grazie alla scienza e alla tecnica.
Il filosofo idealista tedesco Johann Gottlieb Fichte, con la sua teoria metafisica, mostra brillantemente quale sia (l’assurdo) processo mentale alla base di questa concezione: il soggetto, l’Io nella terminologia fichtiana, è il principio da cui tutto discende, compreso l’Io reale (cioè l’individuo cosciente e pensante) e il non–Io, ovvero il mondo reale, la Natura, l’ambiente, il contesto in cui il soggetto è calato. Ma se l’Io è il principio primo da cui tutto deriva, è nelle sue prerogative poter cambiare l’esistente e piegare, nel caso, l’essere al dover essere, che di fatto va inteso come un imperativo morale.
L’essere, il non–Io, sono infatti imperfetti, in quanto degradazione dell’Io puro, e dunque lo sforzo dell’uomo deve essere volto a mondarli dalle imperfezioni e costruire il mondo sociale e naturale quale dovrebbe essere (ovvero senza ingiustizie da una parte e senza terremoti o carestie dall’altra). Questa pretesa, prometeica, tipica dell’uomo moderno ci ha condotti ad abbracciare l’ideologia del progresso e a costruire la società tecnologica di massa, convinti di poter realizzare il migliore dei mondi possibili.
In realtà, l’universo, la natura, l’ambiente, perfino la società, esistono indipendentemente da noi. E infatti il clima è cambiato, cambia e cambierà in ogni caso, con il suo carico di tragedie cui l’essere umano, gli animali e i vegetali dovranno sottostare.
Resta però il fatto che l’uomo, se non è in grado di costruire l’ambiente in quanto tale, è tuttavia decisivo nell’organizzazione del suo ambiente. Più che un problema per la sopravvivenza del pianeta Terra, l’inquinamento e le manipolazioni tecnologiche sono pericolose per gli esseri umani. La Tecnica ci sta spingendo troppo oltre, abbiamo deciso di voler realizzare tutto ciò che è tecnicamente possibile per appagare i nostri desideri, ma rischiamo che tutto questo ci si ritorca contro.
Anche gli antichi sapevano costruire macchine a vapore, ma le consideravano dei giocattoli e non le avrebbero mai prodotte in serie. Temevano, infatti, di peccare di ‘ubris, di tracotanza, e di alterare con quei marchingegni l’ordine delle cose voluto dagli dèi.
Tornare indietro oggi è impossibile, e francamente nemmeno auspicabile, ma riscoprire un corretto rapporto simbiotico tra Uomo e Natura si può, ritrovare un senso del limite è necessario, essere coscienti che siamo soggetti alle leggi di natura è auspicabile.
La post–modernità si para davanti a noi con occhi benevoli se sapremo riscoprire, nel nostro profondo, chi siamo davvero e qual è il nostro ruolo nel mondo, elaborando un’ecologia sana, fondata su precetti antichi, garantendoci un pianeta ancora abitabile dall’essere umano.
Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, solo un merito riconosco al Sessantotto, l’aver sollevato le questioni relative alla difesa dell’ambiente e al rispetto degli animali, poi per il resto, è tutto da buttare. Purtroppo però la tematica ambientale è stata e continua ad essere monopolizzata da una sola parte politica, quella di sinistra, che in nome del “gretismo” o “gretinismo”, accusa chiunque non si allinea a questa nuova ideologia, di essere contro l’ambiente. Ecologia e industria devono essere conciliate, non si deve avere lo stesso atteggiamento che si è avuto ad esempio con la questione dell’ex Ilva di Taranto, dove invece le due cose sono andate in contrasto. Su tale questione, a mio avviso, hanno torto sia chi ne chiede la chiusura, sia chi minimizza sul devastante impatto che l’acciaieria ha avuto sulla salute della popolazione della città pugliese, dove i decessi per tumore sono fatti veri. Pertanto, conciliare quei due aspetti, oltre che essere un obbligo di natura morale ed etica, è anche un modo per contrastare la visione antinidustrialista di questi sedicenti difensori dell’ambiente e del clima. Che poi se è davvero una questione planetaria, i “gretini” lo chiedano anche a paesi come Cina e India di non inquinare il pianeta, e non solo a quelli occidentali.
La ” narrazione” ecologica è abbondantemente in mano alla sinistra ( di varie sfumature). E non è con le battute da bar o con la banalizzazione o lo sminuire le argomentazioni che riusciremo a costruirne una alternativa. Solo con un approccio , che chiamerei, proattivo potremo avere il pallino in mano. In politica la proattività non può che essere costruita con una visione organica delle sfide che ci attendono. Coniugare lavoro con salute è , sicuramente, una delle scommesse più impegnative per gestire la modernità.
Venezia, non solo Taranto, dimostrano invece,che di “organico” dalle nostre parti c’è la politica.
A Venezia gira la battuta fulminante che non sono bastati 6 miliardi di € per spostare un accento