L’arrivo di Luca Toni a Verona, nelle file dell’Hellas, è una suggestione. Una suggestione che fa riscoprire antichi sussulti di un calcio che ormai non c’è più, sempre più stravolto da un circo mediatico autoreferenziale e incentrato sulla pubblicità. Toni al Verona. Luca Toni è il bomber per antonomasia, il panzer d’aria di rigore, il boa che spalle alla porta fa salire la squadra e prende le botte dei difensori. Con quella faccia da ragazzino, da post adolescente con la voglia di vacanza, Luca Toni si è fatto amare in Germania, durante la sua avventura al Bayern Monaco. Gli hanno persino dedicato una canzone e ogni sua apparizione pubblica era seguitissima dai media tedeschi, di solito poco inclini all’entusiasmo.
Anche in terra teutonica, il ragazzone romagnolo, ha segnato valanghe di gol e ha confermato di essere uno degli attaccanti italiani più prolifici degli ultimi decenni. Toni, con quella faccia un po’ così, te lo immagini in estate sulla riviera romagnola, come un Gigi Rizzi di provincia, a fare il filo alle turiste tedesche. E proprio per questa sua aria semplice e spensierata ha attirato le simpatie di tutta la Germania. Luca Toni rispecchia una certa Italia di provincia, che come sempre fatica ad emergere ma che si fa le ossa con il duro lavoro e colma le lacune con l’eccellenza con l’impegno e la professionalità. Non ha un tiro straordinario e non ha una grande facilità di corsa, ma Toni è riuscito a sopperire ai suoi limiti tecnici, imponendosi con prepotenza e dedizione.
Nel calcio, ormai da tempo, sono scomparsi i numeri 10. In Italia, che ha avuto solo per citarne alcuni Rivera, Antognoni, Baggio, Zola, Del Piero, Totti, il fantasista è un ruolo sacrificato all’altare del calcio moderno. Proprio quel calcio che gli ultras ormai disprezzano (memorabile lo striscione “Questo calcio ci fa Skyfo”), imbrigliato tra tessere del tifoso, pacchetti di abbonamenti in tv, sponsor, atleti palestrati e merchandising. Antropologicamente si è estinto, tranne rare e luminose eccezione come Messi, il giocatore di classe filiforme, in grado di saltare l’uomo, battere le punizioni e metterla dentro con pennellate morbide. Il nostro ultimo numero 10 alla Confederation Cup è stato Giovinco, che con tutto il rispetto, non vale mezzo piede di Roberto Baggio.
Ma, parlando di calciatori italiani, si è estinto anche il numero 9. Luca Toni, sebbene affezionato al numero 30, è stato l’ultimo di una lunga stirpe di corazzieri che hanno onorato la maglia azzurra e in grado di essere chiamati “bomber”. Il classico centravanti d’area, magari sgraziato, non a proprio agio con la palla tra i piedi, ruvido nei movimenti ma letale negli ultimi 15 metri e imperioso nello stacco, è una specie in via d’estinzione.
Nel calcio moderno la punta, definita per l’appunto “moderna”, deve saper fare di tutto. Deve avere doti fisiche ma anche di palleggio non indifferenti. E Balotelli, il nostro attuale 9, non è proprio un classico centravanti, anzi spesso è stato fatto giocare come seconda punta e in quanto a tecnica ed esplosività stacca di molto la generazione dei Toni, dei Vieri, degli Inzaghi, dei Montella.
Ecco perché Toni rimane l’ultimo baluardo di noi vecchi sognatori innamorati di un calcio lontano dagli eccessi delle televisioni, dalla tecnologia, dal culto del fisico esplosivo e dalla velocità. E’ il cannoniere che la mette dentro anche ciabattando la palla, ma che timbra sempre il cartellino. È l’emblema della provincia, della periferia, del calcio da bar lontano dalle cronache civettuole confezionate dai grandi gruppi televisivi, ormai più affezionati alla forma che alla sostanza dello sport.
Vederlo a Verona racchiude in sé un’altra cifra stilistica che si avvicina alla poesia. Proprio Verona fu protagonista di un piccolo grande miracolo sportivo di provincia: la conquista dello scudetto nel 1984/85. Era un altro calcio che ha regalato personaggi come Osvaldo Bagnoli e la sua strepitosa squadra. Oggi i campionati sono dominati, tranne le eccezioni recenti delle squadre di Roma, dai monocolori di Juve, Milan e Inter. I bomber italiani sono una razza in via d’estinzione, i numeri dieci non esistono più, le società italiane vengono vendute a magnati indonesiani e gli stadi sono sempre più deserti. La magia non è più tanto ammirare la giocata del campione, ma sapere se Balotelli riconoscerà il figlio o vedere quale sarà la pettinatura di El Shaarawy. Scusate, ma questo calcio mi fa skyfo. Meno male c’è il Verona di Toni.