Oltre ad aver drasticamente innovato il canone horror novecentesco, Howard Phillips Lovecraft (1890 – 1937) è stato un assai prolifico analizzatore di sogni. Difatti, sin dalla più tenera età, le sue notti furono popolate – è proprio il caso di dirlo – da terribili creature senza nome, ma anche da visioni di una potenza assoluta. Rispettando il suo essere sempre controcorrente, in opposizione a quella società despiritualizzata tipica dell’Era Moderna, egli, al posto di rivolgersi alla psicoanalisi, quindi ai dettami imposti da Sigmund Freud, che HPL definì col solito animo pugnace: “il ciarlatano di Vienna”, scelse un’altra, personalissima forma di cura: decise di riversare tutta la propria intensa attività onirica nella scrittura (lettere e racconti), passando quasi senza soluzione di continuità dal mondo da lui sognato alla resa in forma letteraria. I suoi sogni – alcuni dei quali non meno agghiaccianti dei racconti – furono per Lovecraft una fonte pressoché inesauribile di ispirazione, talmente ricca e florida, che il Maestro di Providence decise con puntuale altruismo di condividere con amici scrittori.
Per esplorare la mente di Lovecraft
Il volume Oniricon. Sogni, incubi & fantasticherie, a cura di Pietro Guarriello, già da vario tempo attivo nell’ambito degli studi lovecraftiani, raccoglie le “incursioni” di HPL nel Regno dei Sogni, da lui raccontate direttamente, insieme alle storie che ne sono derivate. Il libro ci offre una eccezionale opportunità per una immersione nell’immaginario di un autore la cui penna ha stregato milioni di lettori sparsi per il mondo intero. Anticipiamo subito quello che potrebbe essere un argomento buono per le conclusioni della nostra analisi del testo. Ovvero, tra le tante cose che grazie a esso riusciamo a imparare sullo scrittore americano, una, dal punto di vista squisitamente letterario, spicca sopra le altre. Sarebbe a dire, che con questo libro si smentisce la ben nota “accusa” più volte indirizzata a HPL di non spiegare i suoi orrori. L’autore chiarisce in alcune delle lettere qui raccolte che le sue invenzioni fantastiche sono direttamente connesse alla inesplicabilità stessa dei sogni. Da qui il passo è breve, per ravvisare quella coerenza intellettuale e creativa che caratterizzò vita e opera di Lovecraft. Se, come si evince da queste pagine, la sua narrativa era in gran parte basata su spunti provenienti dai sogni, allora è perfettamente plausibile che le situazioni soprannaturali e spaventose descritte nei suoi racconti siano sovente “sfuocate” e talora accennate. Pertanto, quello che certi, pochi a dire il vero, vedono ancora quale un limite in Lovecraft è, invece, una precipua qualità che ha fatto di lui, malgrado i tantissimi epigoni, un artista inimitabile.
Il senso di questo libro viene sinteticamente, ma in modo preciso, indicato da Gianfranco de Turris nella sua Prefazione:
“[…] il sogno è vita per Lovecraft” (14).
Non potremmo essere più d’accordo, giacché la lettura del volume chiarisce senza alcuna possibile incertezza come il talentuosissimo scrittore americano – gli studiosi più avveduti sanno che egli si sentiva, o almeno dichiarava di sentirsi, un gentiluomo inglese, ma questa non è la sede adatta per affrontare pure tale controversa faccenda – si nutrisse dei suoi sogni non solo dal punto di vista creativo, ma parimenti quale termometro della sua stessa psiche. Sia chiaro che in far ciò, HPL mai ricorse alle artefatte letture allegoriche della psicoanalisi, al contrario, i suoi sogni, perlopiù incubi, erano da lui raccontati e non interpretati, nel segno di quella razionalità di cui si è sempre vantato di seguire.
Per dovere di precisione, va segnalato che il volume in questione è una sorta di “espansione” di quello curato da S. T. Joshi, Will Murray e David E. Schultz: The H. P. Lovecraft Dream Book (West Warwick, Necronomicon Press, 1994), benché Oniricon sia lungo il doppio, attestandosi in buona misura come un testo sostanzialmente inedito. A tal proposito, vediamo come le note siano in esso assolutamente fondamentali, avendo per giunta una intrigante doppia valenza: quelle di Joshi si distinguono principalmente per l’attenzione sull’aspetto letterario dell’opus lovecraftiano; mentre le annotazioni di Guarriello si concentrano molto sul fornire preziosissime informazioni biografiche sullo scrittore e sulla sua cerchia di amici e collaboratori.
Senza ombra di dubbio, la parte più ricca, nonché di maggiore interesse per chi fa ricerca su Lovecraft, è la prima, ossia, quella dedicata alle lettere ove egli racconta i propri sogni ai suoi corrispondenti, e lo fa in un modo talmente brillante da rappresentare un momento unico del rapporto tra mondo onirico e Letteratura tout court. Del resto, ultimamente andiamo suggerendo di “spostare” questo autore da una settoriale esegesi di genere, alla americanistica vera e propria. La seconda sezione di Oniricon include invece i racconti che sono stati ispirati da quegli stessi sogni di cui Lovecraft disquisisce nelle sue missive, offrendo così una allettante occasione per vedere quale sia stata in effetti la correlazione tra sogno e scrittura nella sua produzione. Chiude il volume il breve e originale saggio di Giuseppe Magnarapa, L’incubo come terapia, dove, in una prospettiva a metà tra lo psicoanalitico e il letterario, si ripercorre quel lato “clinico” della immaginazione di Lovecraft, e grazie al quale, seppur intriso di angosce, egli ha partorito visioni tuttora ineguagliate nel settore dell’horror.
Le sue lettere quale fondamentale campo lovecraftiano di indagine
Tornando all’Epistolario di HPL, che è poi al centro della nostra riflessione, il succitato de Turris ricorda come Lovecraft, in riferimento a una lettera inviata a Joseph Vernon Shea (1912 – 1981), concepisse il sogno quale strumento antimoderno: “[…] da qui lo schema mentale che consiste nel rifiutare un ambiente sgradevole per svegliarsi al di fuori di esso” (14). Condividiamo pienamente tale chiave di lettura dell’opera dello scrittore di Providence. Anzi, sarebbe d’uopo – solo parzialmente lo si è cominciato a fare – riscoprirne la saggistica, insieme a quelle lettere in cui egli pone in essere una sorprendente disamina degli USA, palesando un malcelato malessere verso quel montante mercantilismo che ha sistematicamente connotato questo Paese da quando, a fine ‘800, ha fatto la sua comparsa sullo scenario politico internazionale.
Invero, il coraggio di HPL nel guardare alla propria epoca con un distacco non glaciale, ma, al contrario, pieno di sdegno – come a voler confermare quel lignaggio inglese dei Lovecraft di cui tanto andava fiero – lo si evince dal considerare Freud il: “ciarlatano di Vienna”, in anni durante i quali le teorie dello psicoanalista austriaco di religione ebraica andavano prendendo sempre più piede, in opposizione a quelle maggiormente sofisticate e rispettose dell’animo umano del suo ex-allievo Carl Gustav Jung. D’altronde, HPL non poteva certo accettare la nichilista interpretazione freudiana del sogno come mero simbolo, con quell’ossessivo accostamento alla sfera sessuale. Per il Maestro di Providence, ciò che avveniva durante il sonno era una continuazione della sfera del presente, quando le barriere della morale cadevano e la mente poteva così manifestare pensieri remoti, capaci di generare esperienze altrimenti irraggiungibili. Effettivamente, come si capisce nel accostare le sue lettere ai racconti, la vita di Lovecraft si distinse per una rielaborazione continua della attività onirica, riversata nella esperienza di veglia, al punto che egli dichiarò che gli risultava talvolta impossibile comprendere se stesse scrivendo in piena coscienza, oppure fosse ancora immerso nel sogno.
Genesi e sviluppo dei suoi sogni
Ricordiamo come già a cinque anni, un giovanissimo Howard, in seguito alla morte della adorata nonna materna, Robie Alzada Place (1827 – 1896), cominciò a soffrire di un sonno infestato da figure mostruose, i celeberrimi Magri Notturni (night-gaunts), da lui poi sapientemente ripresi nella sua prosa. Con gli anni, il rapporto tra le articolate allucinazioni dei suoi sogni e la scrittura fece di HPL quell’“onironauta” del quale parla Guarriello, ricollegandosi alla opinione di Joshi, che definisce in modo incisivo l’autore del New England un: “artigiano dell’incubo” (31). Il blasonato studioso di origine indiana ha ragione quando afferma che con tali sogni in età praticamente infantile, il divenire uno scrittore del fantastico fosse quasi inevitabile per Lovecraft.
Sempre Joshi, nella Introduzione (31-37) da lui firmata, sottolinea un aspetto personale che contraddistingueva HPL, la grande generosità verso i suoi colleghi, nonché amici, scrittori. Infatti, Frank Belknap Long – forse quello che può essere considerato l’unico allievo di Lovecraft – Bernard Austin Dwyer e Robert Bloch poterono tutti attingere a quella miniera rappresentata dalla fantasia di Lovecraft, inclusi gli spunti presenti nei suoi sogni, riprendendone temi, situazioni e personaggi nei loro racconti, considerato inoltre che il Maestro di Providence glieli metteva altruisticamente a disposizione (36). Fosse solo per questo, come andiamo pervicacemente sostenendo, è da considerarsi abbastanza improprio l’appellativo di “Solitario” per questo grande scrittore. HPL, negli ultimi anni della sua esistenza, avrà pure scelto di vivere come una sorta di eremita o recluse; tuttavia, non ha mai interrotto quel fiume impetuoso di lettere piene di consigli verso i suoi corrispondenti e quando capitava che uno di questi si recava a Providence per incontrare quello schivo e geniale personaggio, egli intratteneva con gioia il suo ospite. Insomma, Lovecraft a un determinato punto di una carriera, paradossalmente sempre “amatoriale”, non ebbe più bisogno di “andare”, erano gli altri a venire da lui.
La mente di un uomo eccezionale
L’aspetto umano in HPL torna utile per tracciarne quel profilo intellettuale che viene spesso negletto da alcuni studiosi, preferendo concentrarsi quasi esclusivamente sulla sua straordinaria narrativa. Nondimeno, egli possedeva una mente lucidissima e attenta nell’osservare la società che lo circondava. Era altresì, per dirla col nostro Italo Calvino, un “uomo di coscienza”, capace di essere in primis onesto con stesso, cosa che lo portava a ripetuti stati di profonda frustrazione, e lo dimostra l’autoritratto che fa di sé nel sogno: La voce nel cimitero (11 dicembre 1919): “[…] dubito che chiunque con un sistema nervoso come il tuo potrebbe farcela a reggere una simile esperienza”, e continua dicendo, “In ogni caso, non è un luogo adatto a chi non abbia superato l’esame d’idoneità fisica nell’esercito” (51). Analogamente a tanti uomini di genio, vivono in Lovecraft molteplici contraddizioni. Tra tutte, il fatto di sentirsi un americano “non americano”; come pure nel suo essere stato “soltanto”, lo si è accennato poc’anzi, uno scrittore dilettante, motivo che portò alla rottura con la moglie Sonia Greene. Ciononostante, il gruppo di lettere ricomposto in Oniricon ci regala finalmente un affresco su un Lovecraft genuino, ove risplende quell’acume critico che, sfortunatamente, egli ha poco sfruttato. Prendiamo, ad esempio, quando lui si sofferma, con squisita finezza critica, a evidenziare la importanza nodale dell’intreccio nella narrazione (75).
Un ulteriore aspetto che emerge da questo particolare epistolario sta nella conferma della erudizione dello scrittore di Providence. HPL, quantunque non abbia potuto terminare la scuola superiore a causa di un indecifrabile esaurimento nervoso, e di conseguenza non potendosi iscrivere alla prestigiosa Brown University, dove con tutta probabilità avrebbe avuto un promettente percorso accademico in campo astronomico, ha sempre studiato. La maestosa biblioteca del nonno materno Whipple Van Buren Phillips (1833 – 1904) gli mise a disposizione informazioni e spunti su di una miriade di argomenti. Fu però il mondo classico a rapire la sua attenzione. Lo si capisce, leggendo il “sogno romano” (L’orrore sulle colline), riportato nelle tre varianti giunte fino a noi (89-124). Più che delle lettere, quelle dedicate alla Romanità sono praticamente dei racconti, per mezzo di cui si palesa la competenza di Lovecraft in materia di storia classica.
Quello che attraeva l’autore del glorioso passato delle civiltà mediterranee era che poteva rivivere quella remota grandezza nella sfera onirica, attualizzando in tal guisa credenze, rituali e architetture che l’uomo moderno era ed è incapace di percepire nel loro aspetto ancestrale. Pertanto, il sognare in Lovecraft rappresentava una forma di catarsi infinita: “[…] i sogni degli uomini sono più antichi della saggezza d’Egitto o della Sfinge contemplativa, e di Babilonia cinta di giardini” (65). Nel suo confronto con la classicità, egli non lesina entusiasmi per Roma, una passione, quella per il mito della Città Eterna, innata in lui: “I sogni ambientati in epoca romana non erano affatto rari nella mia gioventù; ricordo d’essere stato al seguito del Divino Cesare per tutta la Gallia, e di notte assumevo la personalità del tribuno Milibo […]” (101). A nostro avviso, conoscendo e studiando in modo approfondito l’America e la sua “cultura”, riteniamo Lovecraft uno statunitense atipico, capace di percepire il senso dell’essere un romano, non considerando i fasti della Repubblica prima e successivamente dell’Impero come semplici dati storici. La immortalità di Roma è ciò di più lontano che l’Occidente abbia prodotto dal mercantilismo secolarizzato USA, e Lovecraft anche in questo riuscì a distaccarsi con sontuosa aristocrazia e indipendenza intellettuale dalle sue stesse radici, per sposarne altre da lui valutate di qualità inequivocabilmente superiore. Questo fa di HPL l’unico tradizionalista che l’America abbia avuto; il solo uomo differenziato – mutuando categorie evoliane – riconducibile all’ambiente anglosassone.
Inoltre, di lui si dimentica sovente un dato essenziale: la sua eterna passione per l’Astronomia, la quale, alla stessa stregua dei sogni, ha fornito linfa vitale alle sua cosmica immaginazione: “È vero, ho viaggiato per strani luoghi che non sono di questa Terra, né di qualunque altro pianeta conosciuto. Ho cavalcato comete, sono stato fratello di nebulose…” (72). Per questo, sentiamo doveroso richiamare il suo maggior biografo, Kenneth W. Faig Jr., che ha caparbiamente reiterato nei suoi scritti su HPL che l’Astronomia fu il principale campo di interesse dell’autore, e che tale rimase sempre. La impossibilità in età adulta di coltivare questa sua passione nella Accademia, per via dei suoi vari malanni, lo spinse ad abbracciare quella letteratura weird incontrata quasi per caso, frequentando gli amici scrittori amatoriali che gravitavano intorno alla zona di Boston.
Ci ha permesso di viaggiare nell’ignoto, immaginandolo e raccontandocelo
Concludiamo, dicendo che l’“onironauta” di cui parla Guarriello esce fuori nella sua completezza nel volume. Confrontando lettere e racconti, emerge il profilo di uomo profondamente consapevole. Lovecraft non aveva affatto bisogno di tronfi “ciarlatani austriaci”, per poter comprendere i propri sogni. Anzi, egli andò oltre il vanaglorioso Freud, oggi passato di moda e relegato nella compulsività di una residuale critica veterocomunista. HPL fu capace di esprimere l’astratto e oscuro reame dei sogni in racconti dalla imponente efficacia sia stilistica che contenutistica. Joshi sostiene che: “[…] è proprio il connubio tra immaginazione ed arte ad aver reso Lovecraft ciò che è” (37). Impossibile dargli torto, giacché dei labirinti onanistici della Psicoanalisi il valente autore americano non avrebbe saputo cosa farsene… a lui serviva produrre qualcosa che avesse, sebbene la irrealtà del soggetto narrato, sostanza e non vacuità. Il giovane Howard desiderava fare lo scienziato. Infatti, la sua non ha mai cessato di essere una mente razionale che rielaborava la realtà, e assai poco incline ad apprezzare situazioni e pensieri astrusi.
*Oniricon – Sogni, incubi & fantasticherie di Howard Phillips Lovecraft (A cura di Pietro Guarriello) Milano, Bietti, 2017