“Anche se non vuoi occuparti di politica, la politica si occuperà di te”, si diceva un tempo per incoraggiare soprattutto i giovani non solo a informarsi, ma a partecipare ai movimenti sociali e politici della loro epoca. C’è stato poi un lungo periodo in cui nella società hanno prevalso il disimpegno – caratterizzato soprattutto dal perseguimento di obiettivi individuali o familiari – e, nei casi più nobili, il disincanto, il distacco aristocratico dalla politica, che veniva percepita come il “luogo” dove venivano privilegiati interessi di bottega non sempre legittimi.
Oggi siamo in un momento di grande fermento, almeno in quella che si definiva “società politica”: trasformismi repentini che sconfinano nei tradimenti; alleanze impensabili fino al giorno prima; spostamenti di consensi elettorali possibili soltanto in una società “liquida”, per dirla con Zygmunt Bauman; scissioni e nascite di partiti personali, il tutto in uno scenario elettorale contrassegnato da un massa ormai stabile di astensioni.
Proprio a proposito di partiti e di sistemi elettorali vorremmo svolgere alcune considerazioni. Le uscite dal Pd di Calenda prima, di Renzi poi, insieme ai “rumors” di discesa in campo di un imprenditore come Cairo, riportano in primo piano la questione del partito personale, tornata cruciale dopo l’exploit storico di Silvio Berlusconi, se non il primo in assoluto, il “non politico” che ha riscosso il maggior successo, con la sua ormai famosa discesa in campo, per far nascere il partito personale di maggior successo.
A nostro avviso, la reviviscenza di questo fenomeno deve porsi in relazione non solo con la crisi delle ideologie – ma sarebbe forse più appropriato parlare di crisi della cultura politica – ma anche con i sistemi elettorali. Troppo spesso questi ultimi sono stati utilizzati da questo o quel leader in funzione del prevedibile vantaggio che ne avrebbe tratto il suo partito, e altrettanto spesso è mancata la necessaria analisi storica, per comprendere appieno la ratio di questa o quella scelta. Intanto, più della riflessione sull’apparente instabilità e sulla serrata successione di governi, tipici della “Prima Repubblica”, sono mancati gli approfondimenti sulle radici culturali e sui rapporti con le congiunture storiche dei singoli sistemi alternativi, per denominare i quali si è sbizzarrita la fantasia di politici e operatori dei media (dalla “legge truffa” al “mattarellum” al “rosatellum”, e così via).
Ora, sullo sfondo si staglia la Costituzione nata sulle macerie del Fascismo e della guerra perduta, con le preoccupazioni dei “padri costituenti” volte innanzitutto ad evitare ogni possibilità di restaurazione di regimi autoritari, non solo, ma anche a scongiurare l’affermazione di personalità forti, pur all’interno di regole democratiche. Nasce così l’idea di una democrazia parlamentare che, specie nel paese dei Depretis e dei Giolitti, non poteva che portare non già alla mediazione e al nobile compromesso, ma alla discussione infinita, all’annacquamento di provvedimenti legislativi, al trasformismo, spinto fino alla “compravendita” di deputati e senatori, alla composizione di interessi di gruppi ai danni di quelli generali (clasa discutidora, così bollava i politici e i parlamentari del suo tempo Donoso Cortes).
Per rafforzare l’autonomia da un lato, il potere dall’altro, del singolo parlamentare – indebolendo nel contempo i governi e le maggioranze che li sostengono e incentivando, appunto, il trasformismo – la nostra Carta ha poi stabilito il principio secondo il quale l’eletto risponde soltanto alla sua coscienza e ai suoi elettori, non già al Partito nelle liste del quale è stato inserito.
E’ di tutta evidenza che un sistema proporzionale garantisce al meglio la rappresentanza, rispetto a quello maggioritario: si pensi al caso francese, che, proprio in forza del maggioritario e grazie anche al doppio turno, fin dalle origini esclude o riduce al minimo l’accesso all’Assemblea Nazionale degli esponenti di un partito come il Rassemblement National (ex Front National), che pure sistematicamente si attesta intorno al 25% dei consensi popolari. Ma il proporzionale presenta altre criticità: malgrado eventuali soglie di sbarramento, esso agevola la presenza in Parlamento di minuscole formazioni, spesso dotate di un decisivo potere di veto, nella formazione delle maggioranze.
Di più: questo sistema prevede una sorta di delega in bianco da parte del “popolo sovrano” ai suoi rappresentanti; infatti neppure la Democrazia Cristiana dei “bei” tempi ottenne mai la maggioranza assoluta, così da poter confermare ai propri elettori, al momento di governare, programmi e uomini presentati in campagna elettorale. Le coalizioni sono perciò diventate una via obbligata, per la formazione dei governi, e la storia repubblicana insegna non solo che quasi mai è stato possibile conoscere in anticipo chi sarebbe diventato Presidente del Consiglio, ma nemmeno come sarebbe stata composta la maggioranza a sostegno del governo stesso e quali provvedimenti avrebbe adottato.
Tuttavia, il sistema proporzionale aveva una prerogativa nobile: almeno nelle intenzioni, consentiva visibilità ad ogni famiglia ideologica, anche se troppo spesso, nella situazione internazionale bloccata come quella “ante caduta” del Muro di Berlino, alle opposizioni restava poco più che la facoltà di testimoniare una cultura minoritaria.
Che la situazione sia radicalmente mutata, è sotto gli occhi di tutti: intanto, per sostenere il confronto con gli altri soggetti internazionali (ma poi per poter concedere ai cittadini un sempre migliore tenore di vita), sono indispensabili rapidità di decisioni e assunzione di responsabilità di fronte agli elettori; ma dopo la “morte delle ideologie”, non si vede cosa più ci sia da rappresentare nelle aule parlamentari se non gli interessi, anche legittimi, di gruppi. Una svolta del genere era stata prefigurata – mi si perdonerà la bestemmia – nella “Camera dei Fasci e delle Corporazioni”, ma su ben altri presupposti: quelli di una pretesa unicità e organicità della comunità nazionale, vista differenziarsi unicamente sulla scorta dell’appartenenza a questo o a quel comparto produttivo.
Il favore che oggi circola nel Palazzo, nelle Istituzioni politiche ed economiche, nei media, per il sistema proporzionale, autorizza sospetti di accordi sottobanco, di deresponsabilizzazione, di losco acquisto di consensi non già dai cittadini elettori, ma da quelle formazioni del 2-3%, tornate ad essere non già portatrici di culture, bensì di istanze cortigiane nei confronti dei troppi leader che hanno messo o metteranno non più simboli e bandiere, ma il loro volto sui manifesti elettorali. Partiti, questi personali, basati su carismi più o meno forti e comunque non contendibili e con scarsa democrazia interna. Senza contare quanto siano aleatori ed effimeri i successi dei leader di questi tempi, da Alfano a Fini, da Di Pietro a Pannella. Di questo passo, la deprecata “vischiosità” dell’elettorato italiano durante la Prima Repubblica, verrà travasata interamente nel contenitore dell’astensionismo.
Ci vuole sicuramente una legge elettorale che fissi lo sbarramento al 4%, per non far entrare in Parlamento troppi partiti con percentuali ridicole e a cui poi viene dato troppo potere. Il proporzionale puro con premio di maggioranza alla lista o coalizione che prende più voti penso sia quello più auspicabile, ma il criterio va applicato a livello nazionale in ambedue le Camere, onde evitare nascano due Camere con due maggioranze diverse.
Il problema risiede nella nostra sciagurata Costituzione, nell’aver voluto un bicameralismo quasi perfetto. Con lo Statuto c’era una Camera dei deputati che faceva politica ed un Senato di nomina regia, vitalizia, di carattere essenzialmente onorario, senza stipendio per i senatori, che faceva da padre nobile…