Il Novecento è stato spesso definito il “secolo delle idee assassine”, l’epoca delle “dittature spietate”, il periodo dei “totalitarismi omicidi” che hanno inventato i GUlaG e l’universo concentrazionario di Auschwitz, orrori figli delle dittature staliniste e hitleriane, fortunatamente sconfitte dalle democrazie liberali, che hanno liberato l’umanità, guarendola dal “male assoluto”. Secondo la vulgata, mai prima della Rivoluzione d’Ottobre, né dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si sono verificati “crimini contro l’umanità” paragonabili a quelli perseguiti dal Tribunale di Norimberga e da quello di Tokyo che hanno individuato e condannato i responsabili di orrendi massacri, criminali che, per la prima volta, sono stati accusati di “genocidio”. Il termine “genocidio” è piuttosto recente: è stato, infatti, coniato da Raphael Lemkin, un giurista polacco di origine ebraica, che, nel 1943, nel libro dedicato a Il dominio dell’Asse nell’Europa occupata, introduce questa parola nuova, che indica “la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico”, non necessariamente attuata tramite sterminio, ma perseguita anche tramite l’annientamento dei fondamenti della vita di gruppi nazionali. Possiamo, quindi, parlare legittimamente di “genocidio” quando si vuole eliminare l’identità di un popolo tramite la soppressione delle sue istituzioni sociali, politiche, religiose, aggredendo la dignità, la cultura e la salute degli individui appartenenti a tale gruppo etnico, nazionale o linguistico. Partendo da questa premessa, il ricercatore Leonardo Pegoraro ha scritto un saggio lucido e documentato sui genocidi dimenticati o rimossi, che sono assai più numerosi, raccapriccianti ed estesi nel tempo di quanto possiamo immaginare. Il libro I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australia (Meltemi, pp 424 € 24) dimostra come l’ Arcipelago GULaG e i campi di concentramento tedeschi non sono né i primi né gli ultimi, e forse nemmeno i più terribili, esempi di genocidio.
Come scrive Franco Cardini nella sua bella introduzione, si tratta di un libro coraggioso, “dove non si parla, ohimè, né di Lager né di GULaG; quel che vi si racconta non è stato causato né dai cupi miti del sangue e del suolo, né dalla cruenta utopia della società senza classi, ma tratta di quattro genocidi autentici (e praticamente quasi del tutto riusciti) volontariamente e sistematicamente praticati negli ultimi tre secoli da governi e società civili immersi nella più specchiata e irreprensibile temperie liberal-liberista: americani, inglesi, olandesi”. Parliamo, infatti, delle politiche di sterminio dei nativi attuate dagli Stati Uniti e Canada contro i nativi americani, dall’Australia contro gli aborigeni e dalla Nuova Zelanda contro i Maori.
Se qualcosa dello sterminio dei cosiddetti Pellirossa è affiorato negli ultimi decenni grazie a pellicole come Soldato blu o a libri come Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, nulla si sa, invece, dei genocidi perpetrati contro gli abitanti dell’emisfero australe, vittime di persecuzioni anche peggiori di quelle subite dagli Amerindi. Sarà per il fatto che in Australia, per mezzo secolo, vengono mandati i coloni più pericolosi (disertori, criminali e avventurieri) o forse perché, a differenza del Nuovo Mondo, quello australiano è colonizzato solo dai britannici, che l’Australia viene considerata “Terra Nullius”, ovvero una terra disabitata, a loro completa disposizione. Tanto per dare un’idea, nel 1794, il vicegovernatore del Nuovo Galles del Sud dà l’ordine ai soldati di “uccidere ogni indigeno, sparando a vista e usando qualsiasi mezzo per spazzarli via”, sparando soprattutto contro donne e bambini, “che è il modo più efficace di liberarsi della loro razza”. Allo sterminio indiscriminato, i coloni britannici, come già fatto in America, affiancheranno politiche di eugenetica, con sterilizzazioni pianificate delle donne, affidi forzati dei bambini, separazione tra sessi per impedire la costituzione di famiglie, e, dulcis in fundo, politiche di severa segregazione razziale. E non stiamo parlando dell’Ottocento: l’ultimo istituto australiano dove venivano “educati” i bambini aborigeni strappati alle loro famiglie chiude nel 1988!
Ma la loro tragedia –come quella dei nativi americani- non è finita: “è ancora in corso –denuncia una yamagee– una guerra contro gli aborigeni, anche se non è combattuta con le armi da fuoco o le coperte infettate di vaiolo. Hanno somministrato alle nostre giovani un contraccettivo che causa l’infertilità, e quando devono partorire, le nostre donne subiscono un cesareo, e al risveglio scoprono le loro tube sono state chiuse o tagliate, impedendogli così di fare altri bambini”.
Il libro è per stomaci forti: le descrizioni di massacri, torture, violenze e umiliazioni sono tratte da documenti raccapriccianti per la loro crudezza. Una lettura dolorosa, ma utile a confutare due pericolosi luoghi comuni: l’uomo non è naturalmente buono, e il cammino dell’umanità non è indirizzato verso il Bene e il Progresso, che si sono dimostrati ingannevoli illusioni omicide. (Da Avvenire)